Wanna, la recensione

Nonostante sia tutto noto al centro di Wanna c'è comunque un mistero insondabile che ci tiene attaccati, il mistero di queste donne

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione della docuserie su Wanna Marchi, online su Netflix dal 21 settembre

Come in tutte le serie migliori è un mistero quello che tiene avvinti di puntata in puntata. E anche se Wanna è un docuserie e non una serie di finzione, anche se l’esito di tutto lo conosciamo già e anche se un giudizio sulle persone coinvolte quasi tutti già lo hanno espresso, lo stesso c’è un mistero profondo e insondabile in questa storia, uno in cui

Alessandro Garramone, Davide Bandiera (autore e sceneggiatore) e Nicola Prosatore (regista) con Gabriele Immirzi (produttore) si tuffano di testa. È il mistero di Wanna Marchi e Stefania Nobile, imperscrutabili venditrici di fumo anche e soprattutto riguardo se stesse, nascoste dietro molte maschere, raramente oneste anche quando mostrano sentimenti.

Nonostante non siano killer o spietati aguzzini lo stesso questa docuserie che si concentra sulla storia delle due, sia personale che poi chiaramente professionale e legale, le sonda e cerca di capirne motivazioni, etica e modo di ragionare per scioglierne il mistero. Come si arriva a levare così tanti soldi a persone indifese, come sì può avere quel tipo di arroganza di proporsi continuamente pubblicamente dopo quel che è avvenuto, come si può accettare di farsi guardare in faccia dopo tutto quello che è stato scoperto, che si è detto e che si è sentito. Wanna Marchi e Stefania Nobile, sono delle villain perfette perché accettano la sfida del documentario con la medesima incoscienza e arroganza con cui, si capisce, hanno affrontato tutto in vita. E questo vince la partita.

Le 4 puntate

Nelle prime due puntate su quattro vediamo e sentiamo della vita di Wanna Marchi e poi della scalata alle tv private, venditrice numero uno grazie agli scioglipancia, donna di ferro in un territorio di uomini (come tutti del resto), donna di potere in un luogo (la televisione degli anni ‘80) in cui le donne non lo erano praticamente mai, anzi era quello il trionfo della loro subalternità. Wanna Marchi è una stranissima figura di female empowerment maligno, una imprenditrice che inventa, crea, espande, si mette in proprio, tradisce datori di lavoro, fa salti di qualità, marketing di se stessa e non si ferma mai.

Le ultime due puntate invece sono riservate alla caduta, i contatti con il crimine organizzato, la nuova attività insieme al maestro di vita Do Nascimento (la cui origin story, cioè da dove venisse e come sia finito in televisione, è una cosa da perdere la testa) e l’ingresso attivo della figlia Stefania in quello che era praticamente diventato il business di famiglia. Prima Wanna che si mangia la televisione, poi la televisione che comincia a mangiare Wanna anche se lei pensa sempre che stia avvenendo il contrario. Non c’è racconto riguardo la tv degli anni ‘80 e ‘90 del resto che non sia una storia in cui esseri umani vengono mangiati dal mezzo, dalla fama che porta, l’arroganza, dal senso di potere e impunità che ne deriva. Questo non fa eccezione.

Il mistero Wanna Marchi

Ma su tutto continua a strisciare il mistero Wanna e Stefania. Un primo matrimonio terribile e violento, un secondo finito male, i miliardi e miliardi di lire fatti ogni mese regolarmente, e ogni tanto, nelle interviste fatte per il documentario, dei lampi di potenza e furore in mezzo ad una testimonianza per altri versi molto quieta e ragionata. Il documentario fa di tutto per accendere Wanna (che proprio nel furore aveva la sua caratteristica più nota), non sempre ci riesce (mai con la figlia) ma sa che è tutto lì, come nella testimonianza del colonnello Jessep di Jack Nicholson in Codice d’onore. Fino a che non crolla la maschera è difficile capire cosa ci sia dietro.

Capiterà due tre volte che Wanna lasci intravedere il mostro, cioè la parte più profonda della personalità che ha dato vita ad una delle truffe più meschine e ingiuste degli anni ‘90. Il pensiero più inconfessabile. Esasperata dirà con forza che i coglioni vanno fregati (parafrasi), se sei così scemo da credere a quelle baggianate è doveroso prenderti tutti i soldi. Sarà più sventata della figlia (che dice la stessa cosa in maniera molto più accettabile) e soprattutto del maestro di vita nonché mago Do Nascimento, un uomo che nella sua economia di parole, inespressività ed enigmaticità in realtà è molto più cristallino delle due. Per lui quella vicenda non è stata una ragione di vita, non era una maniera di dimostrare niente a nessuno, era un crimine perpetrato per denaro come se ne possono compiere molti. Per le Marchi no. Era una forma di affermazione. Questo esce fuori.

Nonostante Wanna non abbia la capacità di catturare e trascinare in un tornado di dettagli reali, di contrasti e di snodi impensabili nei quali è complicato prendere una parte, che abbiamo visto nelle docuserie migliori, lo stesso la scelta di lavorare su solo 4 episodi paga molto. È concentrata, densa e ben raccontata. Improntata a una chiarezza giornalistica più che ad un gioco di rimando con la realtà e la lettura di un’intera epoca, quella in cui le televendite erano un contenuto guardato, preso in giro, amato, praticato e di successo, in un paese che consumava perché poteva e in un mondo della televisione che trovava in esse la sua vocazione primaria: vendere, vendere, vendere. Vendere immagini, vendere corpi femminili, vendere intrattenimento, vendere prosciutti, vendere promesse di felicità, di colori, di pance piatte e anche di successo. Vendere fino a non avere niente se non numeri, astrologia e riti immaginari da piazzare e se serve anche con le minacce. La fine di un impero (quello della tv commerciale come l’avevamo conosciuta) condannato dalla tv stessa, da Striscia la notizia e dal linguaggio della neo televisione che mangia i suoi simili.

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