W, la recensione
Dopo ogni apocalisse rimane un manipolo di persone, prese in compiti ripetitivi, la fine dell'umanità e forse l'inizio di qualcos'altro
La recensione di W, il film di Anna Eriksson presentato al festival di Locarno
È così, con budget irrisori, che questo film produce il suo immaginario posteriore all’apocalisse e si disinteressa di ciò su cui invece ogni altro film apocalittico si concentra. Cause, ragioni e intrecci. Non ciò che porta a quel mondo ma cosa quelle immagini possono dire di noi. Lungo questa serie di momenti accomunati dall’impressione di trovarsi di fronte a persone che seguono un protocollo antico prive di guida, come se i loro controllori fossero morti da secoli ormai e loro non conoscendo altro e non avendo più la testa per contrastare questi ordini continuassero ad eseguirli meccanicamente, vediamo un’opera imparentata tanto con la videoarte quanto con la vecchia estetica dell’età dell’oro della pubblicità televisiva (gli anni ‘80) e ovviamente con la storia del cinema, come testimonia un repertorio mai modaiolo e moderno.
E funziona. La delusione semmai viene dalla messa in scena, un po’ stantia. W ha un ritmo, un montaggio e scelte cromatiche, abbastanza superate. Tuttavia davanti ad esso è impossibile non chiedersi chi oggi abbia ancora il coraggio di lavorare sul disgusto, sull'inquietudine e sull'agitazione come modi di leggere il mondo? Questo film che usa l’agonia di una donna come filo rosso per una serie di momenti di vuoto esistenziale, ansia del futuro e tremore del presente, è qualcosa di audace e al tempo stesso illuminato, che non ha nessuna frenesia ma opera una grande fusione efficace di mitologie visive.
Peccato a tratti voglia anche trattare argomenti particolari d’attualità come il patriarcato o i problemi dell’Unione Europea, risultando velleitario. Questo tipo di film e di immaginario trovano un vero senso quando affrontano i valori più grandi, assoluti e non quelli particolari. E anche tutto un parlare di rivoluzione verso la fine fa più che altro sorridere, ma di nuovo, è evidente che nel cinema di Anna Eriksson sono le immagini a contare, non le parole.