W, la recensione

Dopo ogni apocalisse rimane un manipolo di persone, prese in compiti ripetitivi, la fine dell'umanità e forse l'inizio di qualcos'altro

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di W, il film di Anna Eriksson presentato al festival di Locarno

Cinema per stomaci forti e occhi allenati, dopo M del 2018 Anna Eriksson passa al suo opposto, o meglio al suo capovolgimento, W, un film che ha completamente superato il concetto stesso di apocalisse e si trova già con entrambi i piedi in un mondo di immagini post post apocalittiche. Del resto è chiaro che non ha grande interesse per una trama propriamente detta ma semmai nella creazione di uno scenario. Per farlo utilizza immagini che conosciamo come volti asiatici pitturati di bianco presi da Blade Runner, infermiere in tenute d’epoca e musica classica usata da Kubrick in 2001: Odissea nello spazio. Così cambia un senso ai posti e un ospedale può sembrare anche un'astronave o un bunker di un futuro in cui la neve ha sommerso il pianeta.

È così, con budget irrisori, che questo film produce il suo immaginario posteriore all’apocalisse e si disinteressa di ciò su cui invece ogni altro film apocalittico si concentra. Cause, ragioni e intrecci. Non ciò che porta a quel mondo ma cosa quelle immagini possono dire di noi. Lungo questa serie di momenti accomunati dall’impressione di trovarsi di fronte a persone che seguono un protocollo antico prive di guida, come se i loro controllori fossero morti da secoli ormai e loro non conoscendo altro e non avendo più la testa per contrastare questi ordini continuassero ad eseguirli meccanicamente, vediamo un’opera imparentata tanto con la videoarte quanto con la vecchia estetica dell’età dell’oro della pubblicità televisiva (gli anni ‘80) e ovviamente con la storia del cinema, come testimonia un repertorio mai modaiolo e moderno.

Ci sono volti truccati di bianco di Blade Runner, il gotico anni ‘80, le deformazioni di Terry Gilliam ma pure il cinema illogico ma pieno di forza visiva di Russell Mulcahy. Insomma tutto un immaginario già digerito, come l’uso di specchi d’acqua come “pavimento” (materia da fantascienza molto molto saccheggiato dalla pubblicità che già lo rubava al cinema).

E funziona. La delusione semmai viene dalla messa in scena, un po’ stantia. W ha un ritmo, un montaggio e scelte cromatiche, abbastanza superate. Tuttavia davanti ad esso è impossibile non chiedersi chi oggi abbia ancora il coraggio di lavorare sul disgusto, sull'inquietudine e sull'agitazione come modi di leggere il mondo? Questo film che usa l’agonia di una donna come filo rosso per una serie di momenti di vuoto esistenziale, ansia del futuro e tremore del presente, è qualcosa di audace e al tempo stesso illuminato, che non ha nessuna frenesia ma opera una grande fusione efficace di mitologie visive.

Peccato a tratti voglia anche trattare argomenti particolari d’attualità come il patriarcato o i problemi dell’Unione Europea, risultando velleitario. Questo tipo di film e di immaginario trovano un vero senso quando affrontano i valori più grandi, assoluti e non quelli particolari. E anche tutto un parlare di rivoluzione verso la fine fa più che altro sorridere, ma di nuovo, è evidente che nel cinema di Anna Eriksson sono le immagini a contare, non le parole.

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