Vortex, la recensione | Cannes 74

Torna la "zona-Noè", la posizione in cui film come Vortex mettono lo spettatore, costringendolo a costruire cattedrali di interpretazioni su scelte superficiali

Critico e giornalista cinematografico


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Vortex, la recensione | Cannes74

Perché Vortex è mostrato tutto tramite uno split screen che divide in due lo schermo e forma come due diapositive con i bordi arrotondati? Perché così crea proprio all’inizio una frattura tra i due protagonisti che è come se ormai non vivessero più insieme per la demenza di lei e, come conseguenza, non possono nemmeno più abitare la medesima inquadratura? Lui, che scrive e riflette sul cinema, è arrivato ad un livello tale di identificazione di vita e film che la fine del rapporto con la moglie è anche la fine della condivisione delle inquadrature del film che li racconta? Forse queste diapositive che sembrano già i ricordi sono parte dello studio sul sogno e il cinema che sta compiendo lui? E perché mettere le date di nascita di cast e troupe all’inizio? Per poter avere alla fine il santino dei protagonisti con data di nascita e morte e poter così annunciare una paradossale morte filmica di Dario Argento (che interpreta il protagonista maschile)?

La zona in cui si finisce a farsi questo tipo di domande per interpretare il film alla luce di quello che dice sul cinema e sulla forma con cui è realizzato è esattamente quella in cui Gaspar Noè vuole mettere gli spettatori, lì a costruire cattedrali di interpretazioni su scelte formali (come spesso sono le sue) che in realtà non conducono davvero da qualche parte e modificano poco la fruizione della storia. Storia che in questo caso è la sua versione di Amour di Michael Haneke, cioè una storia di due anziani arrivati al momento in cui uno dei due (lei) è affetta da demenza e lui decide di starle accanto nonostante un figlio problematico vorrebbe metterli in una casa di cura.

Lavorando tutto di piani sequenza come spesso fa, Gaspar Noè ritrae la quotidianità abbastanza noiosa e mal recitata di due anziani in una casa densa di libri e VHS, densa proprio di oggetti (rappresenta forse la mente di una persona che ha dedicato una vita per il cinema e ha la testa piena di film, libri, testi, immagini e poster? Eccoci di nuovo nella zona-Noè), così densa che in ogni inquadratura i personaggi sono strettissimi e scomodi. Perché la vecchiaia è un inferno, fa schifo, e i protagonisti sono i primi a riconoscerlo, la demenza è terribile un viaggio che finisce su una tazza piena di escrementi senza nessuna espressione.
Il buon vecchio Gaspar Noè è quello che anche quando rinuncia ai suoi eccessi visivi e ai suoi colori sparati non vuol dire che rinunci ad un cinema eccessivo. Ma è pure quello che quando mostra degli eccessi poi non sa costruirci nulla sopra, cercando più che altro di posizionare lo spettatore in quella zona lì, quella in cui tutto il lavoro ricade su di lui.

Vortex però è peggio di tutto quel che abbia fatto in carriera. Asciugato del lavoro enfatico sull’immagine rimane un film di grandissima noia in cui si tocca il grado zero di affezione per i personaggi. Questo nonostante l’attacco ci proponga un quadro tenero tra i due, nonostante quindi il film la vorrebbe avere quest’affezione. Mai sentiamo che al film interessino questi poveri anziani, mai ci sentiamo vicini a loro o al figlio, mai proviamo qualcosa che non sia l’estremo fastidio per il modo sfacciato e sempre superficiale con cui questo cineasta butta sullo schermo immagini delicate. Perché mostrarci di striscio che il figlio ancora sì droga e il suo di figlio (nipote quindi della coppia di anziani) da lontano lo guarda? Questo dramma mai approfondito, mai trattato e mai messo in questione ma solo mostrato per sfruttarne la componente più shockante e immediata è forse la rappresentazione di una società malata che perpetua il dolore? A Gaspar Noè non interessa davvero ma sa che lo spettatore coscienzioso se lo chiede, almeno fino a che ha la forza di farsi prendere in giro.

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