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Raimunda è una giovane madre, che vede stravolta la sua vita e quella di chi le è vicino da un dramma inaspettato. Il nuovo film di Pedro Almodóvar ha diversi lampi di classe, ma non è il capolavoro sperato…

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Pedro Almodóvar ormai fa parte di una categoria a sé stante. Il suo cinema è diverso da quello di chiunque altro, sicuramente per il modo in cui unisce delle tematiche tipicamente spagnole ai classici noir americani degli anni quaranta. Ma anche per la sua capacità di unire grottesco e dramma, volgare e sublime nella stessa storia, se non nello spazio di pochi secondi.
Qui, peraltro, le citazioni cinefile (che non riveleremo, anche se molti critici per darsi delle arie di intenditori lo faranno, nonostante questo significhi anticipare un aspetto fondamentale della pellicola) si spingono fino a citare chiaramente un episodio famoso della vita di Lana Turner, ma tutto (come sempre nel regista spagnolo) avviene in maniera naturale e senza la sensazione di fastidiose forzature (come capita, per esempio, con Tarantino e i suoi epigoni). Anche perché, nonostante la trama classicamente noir, ad Almodóvar sembra importare ben poco del caso ‘penale’ (basti pensare alla assoluta mancanza di tensione con cui viene seppellito il cadavere), quanto piuttosto all’analisi della vita di questo gruppo di donne.

E sì, perché, dopo la parentesi maschile de La mala Educacion, l’attenzione torna all’altra metà del cielo. Qui gli uomini sono rappresentati da un ubriacone-molestatore e in generale il sesso forte è capace solo di far soffrire, anche da morti. Le donne, invece, si sacrificano, lottano, si ingegnano per trovare ad una soluzione a tutto, ma soprattutto con l’obiettivo di tenere legate le loro famiglie, che sono l’unica ancora di salvezza in questo mondo secondo Pedro, a differenza delle istituzioni (basti pensare a come si parla della polizia).
Il problema, però, è che se la storia è decisamente godibile e ben fatta, non c’è l’impatto (fortissimo, almeno per quanto riguarda il sottoscritto) che aveva La mala Educacion e che riusciva a sconvolgere lo spettatore. Qui sembra che Almodóvar non voglia rischiare eccessivamente, né sul piano narrativo né stilistico. I personaggi, in effetti, non conquistano come ci si aspetterebbe, anche se il cast dà un’ottima prova di sé (tra cui una Penelope Cruz ben diversa da quella che appare nei blockbuster americani). E anche a livello visivo, ci sono sicuramente degli sprazzi affascinanti (la carta assorbente che si riempie di sangue o certe dissolvenze lunghissime e struggenti), ma generalmente il regista sembra volersi contenere (idea comunque non del tutto sbagliata, considerando il soggetto da realismo magico tipicamente sudamericano).

Peccato soprattutto per la solita visione banale della tv spazzatura (nessun giornalista sarebbe così folle da mostrare il suo cinismo di fronte alle telecamere). D’altronde, su questo tema Pedro non dà certo il meglio di sé, considerando anche che ci ha dedicato il suo film peggiore (Kika).
E la spiegazione finale, che dovrebbe rimettere a posto tutti i tasselli del puzzle, rischia di scadere nel sensazionalismo e non è efficace come dovrebbe.

In fin dei conti, questo sembra essere un film di transizione, fatto apposta per piacere ad un ampio pubblico limitando i possibili rischi. E perfetto quindi per vincere (finalmente) al Festival di Cannes

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