Un vizio di famiglia, la recensione
Mescolando commedia e thriller, Un vizio di famiglia riesce a tenere sempre alta la tensione, con uno sguardo glaciale sull'ambiente borghese
La recensione di Un vizio di famiglia, al cinema dal 4 gennaio
Stephane (Laure Calamy), riesce, dopo la morte della madre, a trovare indirizzo e contatto telefonico del ricco padre, Serge (Jacques Weber), con cui da tempo ha rotto i legami. Decide così di andarlo a trovare nella lussuosa villa sul mare in cui questi si è ritirato. Quello che trova è un ambiente famigliare che non sembra affatto esserlo, per lei sconosciuto e minaccioso. La accolgono la nuova moglie dell'uomo, una sorellastra e una nipote di cui non sapeva l'esistenza e che la vedono come una minaccia. Varie contingenze la porteranno a tornare lì, fino ad rimanere completamente invischiata nelle loro vicende.
Più che il riso o la suspense, proviamo disgusto per quello che vediamo. La fotografia gioca su tonalità scure e opprimenti, i movimenti di macchina circolari richiama l'impossibilità a uscire dal luogo e dal giogo paterno. Un clima da fine del mondo, inesorabile, da (L') ultima ora, come nel precedente film del regista. Da cui ritorna anche l'idea di una violenza che non viene mai mostrata ma che sempre si percepisce come pervasiva.
Anche quando poi cominciano a susseguirsi tanti colpi di scena, questi non sono mai enfatizzati, accadono come se non potessero non accadere. Un vizio di famiglia riesce a trovare il proprio equilibrio tra una struttura forte (il thriller) e il ritratto sociale che emerge. Non a evitare di cadere in un certo autocompiacimento, nella necessità di continuare a proporre continui stravolgimenti. Ma rimane l'abilità nel riuscire a tenere la tensione alta per due ore e quella di evitare ogni manicheismo: tutti i personaggi si riveleranno falsi e sgradevoli. Ed è un peccato come proprio la conclusione preferisca proporre un ultimo colpo di coda, piuttosto che girare ancor di più il coltello nella piaga.