Vite vendute, la recensione

Il secondo remake del classico francese anni '50 è un gigantesco punto interrogativo, cinema senza niente da dire nè la capacità di dirlo

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La recensione di Vite vendute, il nuovo film diretto da Julien Leclercq, in streaming su Netflix dal 29 marzo.

Rifare Vite vendute/Il salario della paura è un po’ come rifare Nosferatu. Bisogna vedersela con non uno ma due capolavori: il classico francese di Henri-Georges Clouzot (1953) e il precedente remake firmato William Friedkin (1977). Due film esemplari della capacità del cinema popolare di farsi veicolo “esplosivo” di istanze sociali, riflessioni sul presente geopolitico e sulla stessa natura umana. Il tutto senza dimenticare il cinema, ma offrendo saggi spettacolari su come costruire la tensione, come far detonare i conflitti personali in situazioni estreme, come creare con pochi tratti personaggi memorabili. Nulla di tutto questo si trova in Vite vendute. E probabilmente non era giusto pretenderlo. Ma è deprimente leggere “quel” titolo sprecato su un film così vuoto e spento, che fallisce anche solo nel compito minimo di offrire del decoroso intrattenimento.

La trama dei tre film è grossomodo la stessa: due coppie di disperati devono guidare per centinaia di chilometri di strada accidentata dei camion contenenti nitroglicerina, necessaria per spegnere l’incendio divampato in un pozzo di petrolio. Da un momento all’altro i camion potrebbero esplodere, facendo dell’intero film una specie di versione prolungata del celebre aneddoto di Alfred Hitchcock sulla bomba sotto il tavolo. È un concept straordinario perché permette di condensare in un unico oggetto-chiave tensione narrativa e contenuto metaforico, legando forma e sostanza, meccanismi di genere e allegoria in un solo gesto cinematografico puramente visivo e dinamico.

Clouzot lo usava per parlare di conflitto di classe, Friedkin come tassello della sua personale “metafisica del male”; entrambi attaccavano ferocemente l’imperialismo euroamericano e ritraevano un’umanità bestiale, ridotta agli impulsi primari dell’homo homini lupus. Per contrasto, Vite vendute non sembra avere niente di particolare da dire. Motivazioni e caratteri dei personaggi sono praticamente inesistenti. L’ambiguità del prototipo – in cui gli operai rischiavano la pelle per ragioni egoistiche, ma soprattutto a beneficio degli orrendi magnati del petrolio – è cancellata da un afflato eroico totalmente aproblematico, che vede la missione come necessaria a salvare gli abitanti di una township protetta da una ONG.

Dove il film diventa davvero imperdonabile è nel suo totale fallimento come cinema di genere, come esercizio di tensione in grado di tenere avvinto lo spettatore. Non si salva praticamente niente: la piattezza dei paesaggi digitali; l’asetticità di costumi e make-up (capelli sempre perfetti, mai un granello di polvere); la regia delle scene d’azione, che sembra avere costante bisogno di una rianimazione bocca a bocca, con ogni inquadratura piatta, immobile, equidistante dai soggetti come la precedente e la successiva. C’è una scena di posto di blocco in cui il Benicio Del Toro di Sicario si sarebbe probabilmente addormentato. Un’esplosione digitale di una mina che sarebbe stata inaccettabile già nei primi anni ‘90. E su tutto, un’impressione continua di tempo sprecato.

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