Vite vendute, la recensione
Il secondo remake del classico francese anni '50 è un gigantesco punto interrogativo, cinema senza niente da dire nè la capacità di dirlo
La recensione di Vite vendute, il nuovo film diretto da Julien Leclercq, in streaming su Netflix dal 29 marzo.
La trama dei tre film è grossomodo la stessa: due coppie di disperati devono guidare per centinaia di chilometri di strada accidentata dei camion contenenti nitroglicerina, necessaria per spegnere l’incendio divampato in un pozzo di petrolio. Da un momento all’altro i camion potrebbero esplodere, facendo dell’intero film una specie di versione prolungata del celebre aneddoto di Alfred Hitchcock sulla bomba sotto il tavolo. È un concept straordinario perché permette di condensare in un unico oggetto-chiave tensione narrativa e contenuto metaforico, legando forma e sostanza, meccanismi di genere e allegoria in un solo gesto cinematografico puramente visivo e dinamico.
Dove il film diventa davvero imperdonabile è nel suo totale fallimento come cinema di genere, come esercizio di tensione in grado di tenere avvinto lo spettatore. Non si salva praticamente niente: la piattezza dei paesaggi digitali; l’asetticità di costumi e make-up (capelli sempre perfetti, mai un granello di polvere); la regia delle scene d’azione, che sembra avere costante bisogno di una rianimazione bocca a bocca, con ogni inquadratura piatta, immobile, equidistante dai soggetti come la precedente e la successiva. C’è una scena di posto di blocco in cui il Benicio Del Toro di Sicario si sarebbe probabilmente addormentato. Un’esplosione digitale di una mina che sarebbe stata inaccettabile già nei primi anni ‘90. E su tutto, un’impressione continua di tempo sprecato.