La Vita Possibile, la recensione
Tarato su standard di implausibilità altissimi, La Vita Possibile è animato dalle intenzioni di una pubblicità progresso ma con una messa in scena inadeguata
Due bambini in bicicletta in una via di Roma, così di Roma che dietro di loro c’è S. Pietro (è una strada particolare, molto nota nella capitale, percorrendo la quale si incorre in un effetto ottico per cui più ci si allontana da S. Pietro, lasciandolo dietro di sè, più questo sembra ingrandirsi invece che rimpicciolirsi), i due scherzano, si salutano e in pianosequenza seguiamo uno dei due che entra in cortile, poi in casa, tra le urla. Un uomo, presumibilmente il padre, sta picchiando una donna, la madre, che guarda il bambino straziata piangendo. Lui dalla paura si fa la pipì addosso.
Così inizia La Vita Possibile e così muore il film. Il resto del film sarà un lungo racconto di come madre e figlio scappino a Torino da un’amica e cerchino un’altra vita portandosi dietro i fantasmi della violenza (fisica e psicologica) subita. Incontri, pseudo figure paterne e un rapporto strano tra il bambino e una prostituta. La violenza domestica sulle donne vista nelle sue conseguenze: che mondo crea, che bambini influenza, che problemi comporta. Però La Vita Possibile è talmente educato da suonare morto, l’esatto contrario della vitalità o della brutalità che racconta. Non è mai in grado né di trascinare realmente nella disperazione, pensato com’è per abbandonarsi alle crisi di un bambino attore non eccellente, appoggiato a personaggi da fiction come il ristoratore francese dal buoncuore ma il passato turbolento, e fondato su un intreccio debolissimo, in cui ogni sottotrama non si risolve mai a pieno ma dovrebbe contribuire ad un sentimento generale che non emerge mai.