Vita di Pi, la recensione

La storia della storia di un naufragio, tratta da un romanzo di Yann Martel giudicato impossibile da adattare, e con buona ragione...

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Che Ang Lee sia uno dei cineasti più versatili del panorama mondiale, non siamo certo noi a doverlo rivelare al mondo. Basta dare un'occhiata alla sua filmografia per rendersi conto di quanto il suo talento sia sostanza malleabile a seconda della storia che ha tra le mani. Nel corso degli anni, è passato dal raccontare l'Inghilterra d'inizio Ottocento del lirico Ragione e Sentimento alla Cina leggendaria di La Tigre e il Dragone, passando per gli Stati Uniti anni '70 di Tempesta di Ghiaccio e quelli, poco antecedenti, di Brokeback Mountain. Se dovessimo rintracciare un filo conduttore in questo lungo viaggio alla scoperta dell'universo e del tempo operato da Lee, lo potremmo ravvisare nella frequente fascinazione dimostrata nei confronti dell'elemento paesaggistico e nell'alternanza della natura come forza protettrice o distruttrice. Inquadrare il paesaggio ha spesso dato modo a Lee di raccontare altro, rendendo il singolo scenario o fenomeno atmosferico metafora non troppo celata del mondo sentimentale dei suoi protagonisti.

Vita di Pi è, per lo più, la storia di un naufragio. O meglio, è la storia della storia di un naufragio. Uno scrittore in crisi creativa si reca in Canada per conoscere un indiano sopravvissuto, anni prima, a una devastante tempesta cui seguirono 227 giorni di convivenza forzata, in una scialuppa di salvataggio, con una tigre del Bengala. Una storia eccezionale, incredibile, che si snoda grazie ad un flashback che copre quasi tutta la durata del film e che si regge in piedi grazie alla fresca interpretazione del giovanissimo protagonista, Suraj Sharma.

Dicevamo, la storia della storia di un naufragio: perché in fondo ciò che si svela sotto i nostri occhi è semplicemente il racconto che Pi, il sopravvissuto, fa allo scrittore. Alla luce di questa considerazione, la metafora naturalistica assume uno spessore ancora maggiore, perché se è vero e provato che una terribile tempesta ha fatto naufragare il giovane indiano, sul resto dei fenomeni naturali da lui narrati è opportuno - perché esplicitamente suggerito dall'autore - far calare un velo di dubbio. Ed ecco seguire il racconto man mano con occhio meno incollato al realismo e più proiettato in una prospettiva simbolica, in un'allegoria di cui fino all'ultimo minuto potrebbe sfuggire il senso.

Vita di Pi non è un film perfetto, anzi: se da una parte il gusto visivo di Lee per ogni inquadratura è di una bellezza tanto estrema da sfiorare, in alcuni punti, i picchi della videoarte, la sceneggiatura risulta troppo retorica e, a tratti, ingenua per poter convincere davvero lo spettatore. Il fatto poi che il dilemma principale di Pi, mentre se ne sta nel Pacifico in compagnia di una tigre affamatissima, sia di natura strettamente religiosa non aiuta molto il coinvolgimento dell'ormai smaliziato pubblico del Nuovo Millennio. Dio è misericordioso? Non lo è? Tocca crederci? Dubbi complessi e anche interessanti, che tuttavia vengono sollevati un po' a caso durante il film, dando vita a soliloqui che, più di una volta, rischiano di far comparire un sorriso sarcastico sul volto di chi guarda.

In breve, dispiace attestare il parziale fallimento di un'operazione che, sicuramente, era di una difficoltà inusuale; il romanzo originario da cui il film è tratto, pubblicato da Yann Martel nel 2001, presentava incognite di trasposizione talmente elevate da mettere qualsiasi regista, seppur di vasta esperienza, di fronte alla tentazione di lasciar perdere. Sicuramente a Lee va riconosciuto il coraggio di aver portato fino in fondo un progetto in cui credeva, che sebbene palesi più di una falla a livello di sceneggiatura e di ritmo, non mancherà di incantare visivamente il pubblico dal primo all'ultimo minuto. Se non da seguire, è quantomeno da vedere. E non è poco.

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