Le due vie del destino, la recensione

Arriva in sala la coproduzione anglo-australiana che racconta la vera storia di Eric Lomax a partire dalle sue memorie e senza nessun altro valore

Critico e giornalista cinematografico


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Niente rovina un buon film come una storia vera. Non che Le due vie del destino fosse destinato ad essere un gran film, determinato com'è a non urtare niente a non abbattere obiettivi secondari nella sua corsa verso il finale ma ossessionato dal passare continuamente sopra i medesimi punti (il trauma della guerra, l'insopportabile, il perdono...), tuttavia l'esigenza di essere in linea con la vera vita di Eric Lomax e Takeshi Nagase ne appiattisce ancor di più la profondità.

Pulito ed ordinato come si conviene il film prima si sforza di dare un senso al casting di Nicole Kidman (il suo personaggio non avrebbe quasi nessuna economia nel racconto ma un lungo prologo ne amplia la parte) e poi viaggia avanti e indietro con la memoria per rievocare gli orrori passati con cui il protagonista deve avere a che fare nel presente.
Prigioniero in un campo militare giapponese durante la seconda guerra mondiale, Eric Lomax viene torturato perchè i giapponesi si sono convinti che avendo costruito una radio sia in possesso di informazioni per loro fondamentali. In realtà Lomax l'ha usata solo per ascoltare e quel che ha sentito è che l'Asse sta perdendo. Nondimeno resisterà rimanendo traumatizzato a vita (e in maniera abbastanza ridicola).

Neanche a dirlo il bene è tutto da una parte, Le due vie del destino mette santi contro demoni e non intende avere alcun livello di lettura che non sia quello più immediato. Che domande volete farvi? C'erano dei cattivi e stavano tutti dalla stessa parte, gli altri (quelli che non hanno il naso schiacciato) sono invece delle brave persone. Non siamo insomma dalle parti di Furyo e della sua maniera di incastrare nel racconto di prigionia qualcosa di più grande (c'è solo il metaforone della passione per i treni dalla quale potete trarre qualsiasi elucubrazione preferiate, è talmente vaga da prestarsi a qualsiasi tesi), qui tutto è finalizzato a santificare la figura di Lomax (dalla cui biografia è tratto il film) a vantaggio del finale melodrammatico e iperconciliante. Che le cose si siano effettivamente svolte come è raccontato ad un certo punto non importa più, tanto si desidera una svolta, un guizzo o anche solo un momento di forza filmica.

Il film ha ricevuto diversi encomi per la maniera verosimile e precisa con la quale ha dipinto le condizioni e gli eventi che avevano luogo nei campi di prigionia nipponici durante la seconda guerra mondiale. Già questo tipo di riconoscimento dovrebbe mettere sul chi va là.

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