Via dalla pazza folla, la recensione

Con nessuna voglia di inventare e impegno solo nella gestione dei colori, questa versione di Via dalla pazza folla ricalca tutte le aspettative in materia

Critico e giornalista cinematografico


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È la trasposizione numero 4 dell'omonimo romanzo di Thomas Hardy e non si vuole inventare niente.

Tamara Drew, qualche anno fa, aveva fatto l'opposto. Ispirandosi ad un fumetto che si ispirava al romanzo, aveva trasportato la vicenda ai giorni nostri e aveva cambiato completamente stile e tono. Aiutato dal fatto di avere Stephen Frears alla regia, a garantire un perfetto bilanciamento di equilibri narrativi, quel film aveva cercato non tanto "la versione moderna" per costumi e tecnologie ma la possibilità di prendere quell'intreccio sentimentale, o meglio quella situazione sentimentale, e svilupparla a partire dalle idee contemporanee sul rapporto tra sessi. Via dalla pazza folla, versione Vinterberg, invece sceglie un ibrido fastidioso unendo la fedeltà dell'ambientazione e dei toni alla modernità dei rapporti.

Facendo finta che uomini e donne possano essere più liberi di quanto non lo fossero e che le differenze tra classi fossero meno importanti di quanto non fossero, questo Via dalla pazza folla mette nel passato molta modernità, azzecca ambientazione e fotografia, con un gusto per il melodrammone dai toni al tramonto, ma evitando l'incomodo di usi e costumi vetusti. Si semplifica il lavoro e semplifica la visione agli spettatori, levando il disturbo e la fatica di immedesimarsi in idee e atteggiamenti lontani dalla contemporaneità.
Il risultato è in linea con il classico stile calligrafico che Vinterberg ha scelto per i suoi film da diversi anni, molto piegato sull'uso dei colori più che su quello degli attori o della scrittura. Il suo Via dalla pazza folla non prende nessun rischio (altra pasta e altro coraggio aveva avuto Andrea Arnold con il suo Cime tempestose, tutto macchina a mano e passo moderno) e cerca di rispondere prontamente alle aspettative che suscita il genere.

Nella medesima direzione va anche il casting, perfetto nei corpi e nei volti (Matthias Schoenaerts, ruvido pastore, Carey Mulligan, coriacea padrona, Michael Sheen, tenero spasimante dal nobile lignaggio) ma scialbo nella chimica e nell'interpretazione. Via dalla pazza folla rimane molto distante, non cerca di mescolarsi ai suoi personaggi, non cerca le scene madri, non ha intenzione di farsi partecipe di queste vicende ma le guarda da ben lontano. Al sicuro. Più pettegolezzo che immedesimazione.
Sono i casi in cui sarebbe opportuno parlare di un'operazione intellettuale invece che di pancia, ma non pare nemmeno di essere da quelle parti quanto da quelle di un lavoro innocuo, pronto a piacere perchè fatto per rispondere alle idee preconcette, per rispettare tutti i canoni, eppure pronto anche a non rimanere impresso.

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