Vetro, la recensione

In un film impostato con forza sul mistero e sulla tensione chiusa tra 4 mura, manca la costruzione artigianale della tensione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Vetro, dal 7 aprile al cinema

Certo non è proprio possibile qualificare un film come “di tensione” quando il primo momento di tensione arriva 45 minuti dopo l’inizio e si risolve in meno di un minuto. Non è proprio quella cosa lì. Anche perché poi bisognerà arrivare ad un’ora circa di durata perché parta la vera trama e si possa uscire dalla fase di setup del film, quella in cui ci viene illustrato il contesto, i personaggi, i loro problemi e obiettivi. Un’ora in cui lo stesso non riusciamo ad affezionarci a sufficienza a questa ragazza che vive reclusa in camera per sua scelta (fobia? malattia?), con internet come unico mezzo di comunicazione con l’esterno, un padre premuroso dall’altra parte della porta e dei vicini da spiare attraverso le tapparelle.

Non solo Vetro non racconta la sua trama mentre imposta il setup, cioè non fa correre l’intreccio da subito, ma aspetta di aver messo tutte le carte sul tavolo, per scatenare un colpo di scena che tuttavia, quando arriva, non colpisce più di tanto. Ma non in tutto questo tempo non riesce a dare credibilità ai personaggi e così non è credibile l’intreccio, quindi anche il ribaltamento del tavolo, quando arriverà, non sarà credibile. Gli accenni da La finestra sul cortile, gli echi di Run o simili sembrano fuori posto nel momento in cui Vetro si disinteressa a quello cui tutti questi film (e gli altri sul genere) si interessano: il meccanismo.

In Vetro non c’è il cinema come macchina della tensione, ovvero quell’attenzione molto specifica e molto artigianale alla costruzione della tensione narrativa. Non c’è la concentrazione dei diversi elementi di messa in scena verso quell’unico obiettivo, l’attenzione tecnica e la dedizione all’espediente e al gioco di aspettativa e risultato. Anzi il film fa il lavoro che in genere fa il dramma italiano (l’illustrazione di una personalità immersa in un contesto per riflettere sulle contraddizioni di quella vita e aprire uno spaccato) e poi di colpo costruisce sulla protagonista altro. Prima è trattata e guardata come una bambina, poi molto in fretta e con poca maestria con un po’ di inquadrature le viene attaccata un’identità e una caratterizzazione sessuale forte. Non esisteva e ora esiste e anzi sembra la sua dimensione primaria.

In questa maniera anche le molte svolte che popolano il finale sembrano aggiungere non tensione o emozione, ma stranezza a una storia che ne ha accumulata tantissima fin dall’inizio e in cui è difficilissimo sia entrare, sia lasciarsi trasportare.

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