Vetro, la recensione
In un film impostato con forza sul mistero e sulla tensione chiusa tra 4 mura, manca la costruzione artigianale della tensione
Certo non è proprio possibile qualificare un film come “di tensione” quando il primo momento di tensione arriva 45 minuti dopo l’inizio e si risolve in meno di un minuto. Non è proprio quella cosa lì. Anche perché poi bisognerà arrivare ad un’ora circa di durata perché parta la vera trama e si possa uscire dalla fase di setup del film, quella in cui ci viene illustrato il contesto, i personaggi, i loro problemi e obiettivi. Un’ora in cui lo stesso non riusciamo ad affezionarci a sufficienza a questa ragazza che vive reclusa in camera per sua scelta (fobia? malattia?), con internet come unico mezzo di comunicazione con l’esterno, un padre premuroso dall’altra parte della porta e dei vicini da spiare attraverso le tapparelle.
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In Vetro non c’è il cinema come macchina della tensione, ovvero quell’attenzione molto specifica e molto artigianale alla costruzione della tensione narrativa. Non c’è la concentrazione dei diversi elementi di messa in scena verso quell’unico obiettivo, l’attenzione tecnica e la dedizione all’espediente e al gioco di aspettativa e risultato. Anzi il film fa il lavoro che in genere fa il dramma italiano (l’illustrazione di una personalità immersa in un contesto per riflettere sulle contraddizioni di quella vita e aprire uno spaccato) e poi di colpo costruisce sulla protagonista altro. Prima è trattata e guardata come una bambina, poi molto in fretta e con poca maestria con un po’ di inquadrature le viene attaccata un’identità e una caratterizzazione sessuale forte. Non esisteva e ora esiste e anzi sembra la sua dimensione primaria.