Vera, la recensione

Mantenendo una consapevole ambiguità tra realtà e finzione, Vera restituisce il ritratto dolente di un'orfana (di padre e del mondo)

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La nostra recensione di Vera, in concorso nella sezione Orizzonti della 79 esima edizione del Festival di Venezia

Osservandone le fattezze trasmutate nel tempo dalla chirurgia, il nome "Vera" risulta beffardo per la protagonista del film di Tizza Covi e Rainer Frimmel presentato al 79simo Festival di Venezia. Eppure, del vero c'è eccome. L'opera è infatti di una fantasia cinematografica largamente basata sulla reale esistenza di Vera Gemma, figlia del celeberrimo Giuliano che diede corpo e anima a tanti spaghetti western. In parte falsa, certo; in parte, appunto, vera.

Nel suo primo atto, anzi, abbiamo l'impressione che Vera altro non sia che un reportage (orchestrato, per carità) sulla vita della donna; tediosamente divisa tra eventi mondani dal sapore trash e relazioni superficiali, la delfina dei Gemma manifesta sin dalle prime scene una feroce fame di compagnia; compagnia che sembra trovare in persone che poco o nulla sanno di lei (tassisti, barman, etc.). Questo perché - il film ce lo svela ben presto - porta sul capo lo stigma del pregiudizio di chi la inquadra esclusivamente come "figlia di".

Vera e falsa

L'ambiguità di Vera, altalenante tra la forma documentaria e la sostanza di finzione, è emblematica della storia che si propone di narrare; la parabola della protagonista è infatti incentrata sul conflitto tra apparenza ed essenza, dicotomia che coinvolge via via tutti i personaggi principali, divenendo motore della trama. Come Vera non è ciò che appare, così anche i comprimari, cui una piena onestà è preclusa per ragioni sociali, economiche, sentimentali. La menzogna, intesa o involontaria, dilaga e travolge tutto e tutti.

Incapace di collocarsi in un mondo cinematografico fatto di facce di un certo tipo, che vada al di là della superficie per scavare più a fondo, Gemma sembra condannata a vagare nel girone infernale dell'apparire senza aver mai possibilità di mostrare la propria reale essenza. Così si aggira, adornata da un cappello da cowboy di volta in volta in un colore diverso; con questo omaggio sfacciato ed esplicito al padre, cela le proprie insicurezze dietro il titolo di principessa ereditaria del re degli spaghetti western.

Se il cinema la rifiuta, non va meglio col teatro; specchio del proverbiale contrasto tra aspettative e realtà, tra aspirazioni e bisogni, il microcosmo del palcoscenico è perfettamente esemplificato dal personaggio di un verboso autore afflitto da problemi di regolarità intestinale. In una scena dai toni grotteschi, osserviamo Gemma recitare - per un provino col suddetto autore - il monologo di Scarface, nel toccante tentativo di render propria la spregiudicata tracotanza del protagonista del film di De Palma.

Out of time

Già dall'incipit, Vera si configura come un monumento alla solitudine di un'orfana; orfana non solo del padre, ma del mondo che ha amato e al quale fa riferimento nella costruzione della propria identità. Il suo inseguire un presente alieno la taglia fuori dal tempo; rimbalzata al provino di un film in costume per il suo volto chirurgicamente troppo moderno, cattura l'attenzione del regista in virtù della fama del padre. Una vita all'ombra di un attore di culto, un'esistenza che intuiamo piagata da ferite mai rimarginate.

Basterebbe l'aneddoto sulla madre, che spinse le figlie a rifarsi il naso, a scoperchiare il vaso di pandora della famiglia Gemma e chiarire dove nasca il germe dell'insicurezza della protagonista, afflitta da un senso di inadeguatezza che ha radici fin nell'infanzia. "Già da piccola mi guardavano male perché non ero bella come mio padre", confida Vera al fidanzato-opportunista di turno; e intravediamo un fil rouge nell'inseguire non tanto il mito, non tanto la carriera, ma la beltà paterna. Il riferimento al modello di bellezza trans è, in questo senso, illuminante sull'universo di riflessioni della donna, paladina di un fascino disperato che trascende il genere e che è stratagemma per rincorrere l'estetica paterna.

Il peso della bellezza va dunque di pari passo con quello dell'eredità in Vera; sulla scia della propria insicurezza (estetica e psicologica), la protagonista cade presto vittima di una rete d'inganni e bugie. Cercando una normalità familiare a lei sconosciuta, Vera si avvicina - complice un incidente - a un meccanico vedovo, indigente padre di un bimbo. Per espiare il privilegio di nascita, intraprende una crociata di beneficenza illogica, finendo in un vortice truffaldino da cui non potrà emergere vincitrice. Vera non è sciocca né ingenua, ma accetta il compromesso con un mondo che, lo sa, non potrà mai essere del tutto onesto con lei.

Solitudine e identità

Anche nella parte più smaccatamente di finzione del film, Vera mantiene un'autenticità che ne è l'autentica forza; in particolare nelle scene tra la protagonista e il bambino, emerge infatti una verità che intuiamo derivare da una sceneggiatura quanto mai libera. Spiando tra i tasselli della messinscena, scorgiamo una vitalità pulsante che cattura il nostro interesse. Oltre la storia costruita ad arte, avvertiamo la necessità bruciante da parte di Gemma di costruirsi un'identità che prescinda dal concetto di "figlia di". Un percorso di affrancamento duro e dolente, che trova il proprio manifesto in una scena con Asia Argento.

L'attrice, amica storica della Gemma, guida la protagonista nel cimitero acattolico di Roma, fino a portarla dinnanzi alla tomba dell'innominato figlio di Goethe. Davanti a quella malinconica - sebbene irrealistica - prefigurazione del proprio lascito, le due donne si lasciano andare a un'amara riflessione che, al di là di alcune ingenuità di scrittura, lascia il campo a una domanda universale: quanto è difficile costruire la propria identità prescindendo dalle radici? Vera non ha risposta, ma nel mesto finale ci lascia con la consapevolezza che rinunciare allo status di figlio porti con sé un'inevitabile, disorientante solitudine.

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