Venuto al mondo, la recensione

Il nuovo film Castellitto / Mazzantini / Cruz, dopo Non ti muovere, non riesce nel miracolo di superare i propri difetti e sguazza nella noiosa prevedibilità...

Critico e giornalista cinematografico


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Quelle firmate Castellitto/Mazzantini sono produzioni molto banali, ripiegate su una visione di mondo parzialissima ed estremamente scontata, afflitte da una volontà indefessa di poesia, lirismo e trasfigurazione del reale in romantico che è tanto fastidiosa quanto tangibile, ma questo non gli impedisce, in certi momenti, di trovare un senso e anche centrare degli obiettivi. Era il caso di Non ti muovere, che sapeva districarsi tra i propri difetti per arrivare alla meta, cosa che invece non capita con Venuto al mondo, che nei propri difetti ci sguazza.

Lungo, largo, noioso, scontato e in certi momenti quasi naive, nella maniera in cui pretende di rendere gli iperbolici tormenti interiori dei propri personaggi. Dietro metafora e sotto le mentite spoglie di una storia inventata in un tempo mutato c'è ancora una volta la storia degli autori, ovvero quella di un artista (o gruppo di) e di una famiglia borghese a contatto con realtà autentiche, dure e probanti.

La quintessenza delle caratteristiche che generano disaffezione, se non odio, per il cinema italiano sono tutte condensate in un film dalla pessima narrazione (arditamente orchestrata su diversi piani temporali che si incrociano) e tutta finalizzata allo svelamento di un colpo di scena che, prevedibile o meno, non è clamoroso come il narratore vorrebbe nè genera la commozione che dovrebbe. E a poco servono i ralenti. Anzi.

Il problema di Venuto al mondo è che sembra convinto di stare raccontando qualcosa di importante e che questa virtù (tutta di dimostrare) da sola possa smuovere lo spettatore, portarlo ad empatizzare e colpirlo come il film sembrerebbe volere. Tutto concentrato nell'illustrare la classica dinamica giovani/sogni di libertà/espressioni artistiche/repressione degli orrori della guerra, Castellitto dimentica di curare ogni personaggio dandogli motivazioni, spigoli di interesse, piccoli frammenti di autenticità o anche solo guizzi di empatia. Quel che espone non è sempre coerente, nè tantomeno coinvolgente a meno di non voler fortemente credere al contesto e fare, nella propria testa, quel lavoro che il film dovrebbe fare da solo.
A questo punto servono a poco l'impegno di Penelope Cruz e l'estasi di Emile Hirsch, amanti perduti la cui folle passione si desume dagli interni alternativi, dalle risate al ralenti, dai primi piani intensi o anche dalla foga delle loro litigate e dai bagni nudi nella vasca all'interno della chiatta sul Tevere nella quale vive lui.

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