Venom - La furia di Carnage, la recensione
Ancora più in basso del primo film Venom - La furia di Carnage vuole sia l'antieroe che il film per famiglie e non raggiunge nulla
“Mi dispiace non poter guarire il cuore. Il dolore emotivo arriva in profondità”. È probabile che nessuno con un minimo di confidenza con il personaggio di Venom indovinerebbe che è lui a pronunciare questa frase, in uno dei momenti più bassi di un film che fa di tutto per battere sé stesso in una gara di scavo oltre il fondo del barile già bucato dal primo. C’è solo l’imbarazzo della scelta: la frase emotiva sopracitata; il simbionte che canta Let’s Call The Whole Thing Off; il simbionte che prepara la colazione comicamente per tirare su Eddie; il simbionte che va ad una festa in maschera sale sul palco e fa un discorso sull’accettazione dell’altro; Carnage, il villain del film, che ad un certo punto dice proprio esplicitamente “Ecco la furia di Carnage!” (chi mai potrebbe dire una cosa del genere in terza persona!?) con un fulmine dietro di sé, come se annunciasse il film in un trailer.
I grandi film di supereroi fanno di tutto per allargare il proprio pubblico, con Venom e ancora di più con Venom - La furia di Carnage, dimostra di avere anche bisogno dell’opposto, di film dedicati ad un pubblico più stretto, quello dei 13enni, e che questo merita meno degli altri. Non c’è qui spazio l’idea di mondo che regna nei film del Marvel Cinematic Universe, in cui c’è sempre un aiuto da qualcun altro, in cui nessuno è un’isola ma tutti sono parte di una comunità più grande di pari (quella dei supereroi) a cui fare appello e da cui essere aiutati, alle volte anche solo con un artefatto dal passato, una tecnologia, una frase o un cammeo. Venom sta in una dimensione a parte (ci viene detto chiaramente dopo i titoli di coda) e dopo un primo film che applicava il manuale delle origin story senza variazioni qui, con la regia indistinguibile di Andy Serkis, vediamo il film d’azione con eroe individualista di una volta. Non ci risparmiano nemmeno l’archetipo della damigella in attesa di soccorso legata e imbavagliata (!).
Anche l’unica parte sensata non è davvero sfruttata. Il film ossessiona il pubblico nella prima parte con la sete di sangue di Venom così che poi, quando è lo psicopatico criminale Cletus Kasady ad essere posseduto da un simbionte, possiamo fare da soli l’equazione di cosa quella pressione per la morte possa fare ad una mente già omicida. Tuttavia quell’idea del massimo del potere affidato all’ultima persona che dovrebbe averlo (che poi sarebbe la base del vero personaggio Venom) non è mai agghiacciante come dovrebbe. Anche Woody Harrelson pare portare il suo stereotipo, lo sguardo allucinato che ha già sperimentato altrove.
E dire che invece Venom sarebbe una figura dotata di contraddizioni eccezionali per il mondo del fumetto, materia potenzialmente incendiaria. Come molti supereroi è animato da una dualità, cioè è due cose, identità segreta e versione “potente”, solo che in lui queste due anime convivono con una relazione di contrasto che è unica. È l’unico che per agire (che poi è la caratteristica dell’eroe d’azione, avere la capacità di fare oltre che aspirare a fare) deve mediare, contrattare e incontrarsi a metà strada con il potere. Ma sono solo fantasie. Il film non solo è tutt’altro ma non sembra sapere bene nemmeno lui cosa essere.