Venezia 73 - I Magnifici 7, la recensione

Il film di chiusura del festival di Venezia è il remake di un remake che perde ogni sapore. I Magnifici 7 manca le fondamenta del west e non è mai epico

Critico e giornalista cinematografico


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Django Unchained, i grandi team di uomini che combattono tutti insieme, la rilettura della società all’insegna del multirazziale e la grande ondata dei remake, sono tutte componenti che confluiscono in I Magnifici 7 di Fuqua, progetto che il regista aveva cullato a lungo e che ora sembra essere il film giusto per il momento giusto. Ma per essere più precisi andrebbe detto che tutto si allinea intorno a Denzel Washington e alla sua presenza carismatica che pare il sasso da cui può essere creata la valanga d’azione che il film desidera essere. Intorno a lui e alla coolness che Fuqua gli costruisce, fatta di inquadrature di taglio, spari iperbolici, centri impossibili e anche l’unico stunt a cavallo di tutto il film. Purtroppo però il nuovo I Magnifici 7 si ferma qui, a un’opera per appassionati di Denzel Washington.

Il cowboy nero vestito di nero (una volta abbigliamento distintivo del villain come insegna Vera Cruz) è lo Yul Brinner di questa versione di I Magnifici Sette che perde per strada ormai qualsiasi riferimento a I Sette Samurai (incluso il bellissimo e complesso rapporto con i paesani, totalmente tradito). Gli altri indossano sempre gilet hipster, sono grossi con fisici molto moderni o ironicamente postmoderni come l’orso religioso di Vincent D’Onofrio. Sono forse gay ma soprattutto sono cinesi, indiani e messicani. Hanno tutto per essere moderni ma il film lo è molto meno di loro.

Privo di narrazione interna, il confronto tra i pochi e i molti diventa una grande sparatoria e basta

Fuqua pare sapere che il western è un genere di veri stunt, uno in cui gli effetti vanno ottenuti sul set e le esplosioni vanno riprese da lontano, nella loro magnificenza, eppure ha un braccino corto corto durante il grande confronto finale e dimostra di non sapere cosa rende grande la grande azione. Privo di narrazione interna, il confronto tra i pochi e i molti diventa una grande sparatoria e basta, non intrattiene ma mette in fila spari e bombe. Invece di essere il momento in cui le diverse storie individuali arrivano al pettine, nella più epica delle cornici e con le più necessarie delle decisioni, è il momento in cui si decide chi muore e chi vive. Purtroppo però questo film non è capace nemmeno di costruire grandi sequenze d’azione fini a se stesse, cioè non è capace di intrattenere con il solo gesto filmico.

Del resto era difficile narrare qualcosa nel finale dopo che I Magnifici 7 non è riuscito a gettare nessuna base nel corso della sua storia, nemmeno con l'altisonante nome di Nic Pizzolatto in sceneggiatura. Il western è anche un genere di scelte morali, quello che per decenni è stato il fondamento etico del cinema americano. I cowboy si confrontano con i criminali per prendere decisioni, si contrappongono a sindaci spietati o comunità pavide, sono gli unici con la schiena dritta e tengono alta la bandiera della moralità in un mondo in cui è troppo conveniente ammainarla. I Magnifici Sette è la summa di tutto questo perché delle persone rischiano la vita per la convenienza di altri, ma in questa versione non capiamo come mai. Ad ogni nuova adesione non corrisponde una piccola storia individuale, una motivazione o anche solo una rivincita personale. I criminali, i bastardi e i cowboy si uniscono alla banda senza ragioni, si imbarcano in un’impresa che sanno essere mortale ma noi non capiamo perché. Addirittura, fallimento dei fallimenti, l’unico che sembra lottare con se stesso e animerà l’unico twist narrativo del finale lo fa in maniera totalmente immotivata.

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