Venezia 73: La La Land, la recensione
Il cinema che fa sognare di essere in un film. Ingenuità di una volta nel mondo moderno, musiche di ieri con linguaggio di oggi: La La Land è da vedere
La nostalgia al cinema invece si interroga se possa ancora esistere il cinema di una volta.
Due anni fa a Venezia Peter Bogdanovich portò Tutto Può Accadere a Broadway, un film che era un viaggio nel tempo, sembrava fatto ieri e stonava con i costumi moderni. Chazelle non vuole viaggiare nel tempo, come spesso desidera anche Tarantino, Chazelle vuole quelle sensazioni lì con il cinema di oggi. Vuole essere moderno, ma anche cool come il jazz.
La La Land ha i colori di Stanley Donen e i movimenti di macchina elaborati dello studio system, ma è un film contemporaneo con delle musiche meravigliose e trascinanti, capace di lavorare sui sentimenti più semplici in assoluto. Da ogni macchina che passa esce musica, da ogni radio un genere diverso e intanto un ragazzo e una ragazza si incontrano, lui sogna di tenere in vita il jazz, lei di diventare un’attrice. Il sudatissimo primo bacio arriva al termine di un corteggiamento danzato lungo 3 coreografie, due appuntamenti e incontri casuali. Tempi (del cinema e della vita) di una volta.
Questo film ha la rara capacità di farti bramare ardentemente di vivere nel suo mondo invece che nel nostro, di conoscere quei personaggi e avere quella spensieratezza anche nei drammi. Fa sognare nel senso stretto del termine e fa uscire con il desiderio di ballare una coreografia semplice e leggera, fischiettando. Almeno nel primo tempo.
Nella seconda metà, quando all’amore si affianca il tentativo serio di inseguire un sogno (e Chazelle non scherza mai con i sogni di gloria, sono un inferno che non lascia spazio a niente altro). Da lì il film vuole cambiare e diventare qualcos’altro, vuole lasciarsi alle spalle il mondo zuccheroso di una volta ed essere spietato come Whiplash, condividendone la medesima etica di fatica e privazioni emotive. Proprio qui il racconto non è più spedito e felice come inizialmente. A salvare tutto rimangono le musiche di Justin Hurwitz (lo stesso di Whiplash) ed Emma Stone, perfetta anche più del sempre serafico Gosling, nell’interpretare quell’esigenza di leggerezza anche nel dramma, quel sentimentalismo un po’ naive e quindi desiderabile.
Perché alla fine anche Chazelle come i suoi personaggi non ha scelto nessuna delle possibili strade facili. La La Land non appartiene infatti ai musical in cui le canzoni portano avanti la storia, in cui i personaggi invece che parlare cantano quel che si devono dire. Appartiene a quelli come Un Americano a Parigi, in cui la musica e le coreografie servono a mettere in scena i sentimenti in ballo in quel momento, non musicano le parole, le sostituiscono nella corsa verso la rappresentazione emotiva. Armonia per raccontare sensazioni, come quando il pianista da bar non sa che dire all’attricetta e le suona un brano così struggente da diventare la loro vita insieme come mai l’hanno vissuta.