Venezia 72 - Il caso Spotlight, la recensione

Un film perfetto che impiega tutte le sue 2 ore per raccontare una storia senza mettersi in mostra. Il caso Spotlight è una perla di scrittura e recitazione

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Ha dell'incredibile il lavoro di scrittura fatto da Thomas McCarthy e Josh Singer su Il caso Spotlight, una minuziosa ricostruzione che fonde con eleganza e minimalismo il reale con il finzionale, ciò che è accaduto realmente, i fatti per come si sono svolti nel pieno rispetto delle vittime (e, grande forza, dei carnefici), con la necessità di dargli un andamento narrativo moderno e coinvolgente, la verità plasmata a forma di ragionamento filmico. Perchè è proprio quello che interessa a McCarthy: animare un gigantesco film che non solo mostri ma anche introduca nella testa dello spettatore la portata della sua storia e delle sue implicazioni. Il suo pregio invece è di saper lavorare su tempi lunghi, su una sceneggiatura che utilizza tutte le sue due ore di durata per arrivare al punto, non cercando mai piccoli trionfi o soddisfazioni intermedie. La particolarità di Il caso Spotlight nel cinema moderno sta proprio nell'essere un film-fiume, privo di scene madri e determinato a mettere in ombra se stesso rispetto alla storia.

In queste due ore sembra ci sia materiale per una serie televisiva, tanto sono dense eppur chiare. Lo scandalo di pedofilia interno alla comunità cattolica di Boston del 2002 (presto allargatosi) è visto dal punto di vista dei giornalisti del Boston Globe che l'hanno smascherato e raccontato, due azioni che nel film coincidono. Non esiste verità se non quella che può tramutarsi in narrazione, non esiste rivelazione che non possa essere raccontata, e così procede anche McCarthy, imitando i suoi giornalisti. La pedofilia è infatti forse l'ultimo degli interessi del film, ciò che ormai tutti sanno; il suo primo obiettivo è invece mostrare un percorso e un piccolo mondo dietro ad un grande scandalo con una commovente economia di retorica che si misura nelle controllatissime interpretazioni.

Il caso Spotlight racconta Boston, come lì il potere cattolico entri ovunque e penetri ogni struttura, come ogni istituzione dipenda dalle altre, non ultimo il suo giornale (il cui edificio, in una bellissima panoramica, "minacciato" da un gigantesco cartellone pubblicitario di una internet company, del resto era il 2001....). Il film ha un contenuto affascinante e potente ma non è niente rispetto alla posizione di ferro che prende nello scegliere come raccontarlo. Imitando i giornalisti McCarthy e Singer sembrano essersi domandati ad ogni scena come realizzare il massimo con il minimo, anche l'ottimo cast pare impegnato in una gara di sottrazione (tutti tranne Ruffalo, l'unico autorizzato a caricare la propria interpretazione e capace di farlo con maestria impressionante).

Il risultato è che questo grandissimo film riesce contemporaneamente a delineare un personaggio unico e sobriamente epico come il direttore del giornale di Liev Schrieber (compare poco e parla anche meno, sembra non contare niente ma è il motore di tutto, autorevole e statuario con il minimo sforzo) e architettare una storia molto complicata e complessa da chiarire, con lo scopo di portare a conclusione un ragionamento sulla responsabilità collettiva e individuale, permettendosi addirittura un colpo di scena finale che coinvolge il Robby Robertson di Michael Keaton (uno dei suoi ruoli migliori, finalmente controllato), unico momento di vera e meritata compassione.

Dall'altra parte invece il controllo sentimentale e il pudore umano nell'approcciarsi ad un tema come la pedofilia infantile sta tutto in uno dei molti colpi di Il caso Spotlight, nel piccolo momento in cui la giornalista di Rachel MacAdams, di famiglia cattolicissima, fa leggere a sua nonna il primo articolo con le grandi rivelazioni, quello che cerca di descrivere scene, abusi e violenze a dozzine ad una comunità che non ne aveva la minima idea. Nell'interpretazione dettagliata, lenta e misurata della comparsa che ha il ruolo della nonna e nella maniera in cui il film arriva a quel punto (con lo spettatore perfettamente conscio di che rivelazione spiazzante possa essere per i personaggi) c'è in sineddoche tutto il film, c'è la forza devastante del sommesso.

Continua a leggere su BadTaste