Venezia 72 - A Bigger Splash, la recensione
Audace, arrogante, ambizioso e rischioso, il nuovo film di Guadagnino non è un capolavoro ma di certo incarna il cinema più auspicabile in assoluto
Come insegna il cinema classico italiano, mettere quattro abbienti che lavorano nell'industria culturale in uno scenario panico e selvaggio come quello di Pantelleria è occasione per raccontare la difficoltà nel capirsi. Eppure non è questo quel che colpisce di A bigger splash, mai come in questo caso l'intreccio conta meno della sua realizzazione, che invece va nella direzione di un prossimità con i personaggi stupefacente. I quattro che si capiscono e non si capiscono non sono visti da lontano, con la distanza cui il cinema ci ha abituato quando si tratta di figure altere ed intellettuali, ma con la vicinanza meno comoda.
Per questo, nel finale, l'inserimento dei temi di attualità che più associamo a Pantelleria non suona fuori posto ma forse come l'unica maniera per poterne parlare senza ripetere quello che ormai non ascoltiamo più.
Guadagnino e il suo team (una compagnia che non si può definire come solo "comparto tecnico" ma contribuisce a molti livelli diversi al film) dopo Io sono l'amore cercano ancora nuovi percorsi, nuove strategie che stupiscano e quindi colpiscano con la forza del colpo che ti arriva da dove non te lo aspetti, con l'obiettivo di parlare degli argomenti più noti. Ad animare questo film sono dettagli rapidi, alternati a piani lunghi, un ritmo nel montaggio altalenante che non segue mai le aspettative del pubblico o i canoni del cinema e infine la sua tendenza ad alternare con grande fluidità carrelli o zoom in avanti al loro opposto di stacco in stacco, con una voglia di reinventare il linguaggio comune del cinema che ricorda gli anni '60. Tutto questo non basta a rendere questo dramma a quattro il capolavoro che l'audacia formale sembra desiderare, tuttavia è evidente che è senza dubbio questo il cinema che occorre girare.