Venezia 75 - Nuestro Tiempo, la recensione

Ranch, tori e corna in Messico, Nuestro Tiempo racconta la fatica di rimanere insieme

Critico e giornalista cinematografico


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Nel Messico dei ranch e dei grandi spazi tori, ragazzi, amori, rancheros e gringos si inseguono e si amano con una libertà che forse non quadra a tutti. Nuestro Tiempo è il racconto di una coppia e di tutto quello che gli sta intorno, almeno lo è fino a che non diventa altro, cioè fino a che non diventa il racconto di come la libertà e le idee aperte di questa coppia sono messe alla prova dal dubbio e dalla menzogna. Amare in giro e avere relazioni extra-coniugali senza nasconderselo va bene fino a che qualcosa non viene poi davvero nascosto e fa nascere i dubbi. Il perché e cosa implichi questa bugia diventa un tarlo che lentamente erode tutto.

Finchè il film mostra lo scenario, le persone, i rapporti e racconta per sensazioni il grande mondo in cui sono inseriti i caratteri sta più che a galla, con sprazzi di cinema immenso. Poi quando la coppia scavalla e supera il punto di non ritorno (circa a metà di un film di tre ore) iniziano le recriminazioni e Nuestro Tiempo diventa scombinato peggiorando con il passare dei minuti. Rimproveri ed autocommiserazioni in interni angusti, nonostante fino a quel momento abbiamo visto spazi immensi, si ripetono sempre uguali senza arrivare ad una soluzione, senza evolvere. Il punto sarebbe proprio quello scontrarsi ma rimanere insieme, rappresentare la contraddizione della fine di una storia che non si vuole far finire, ma c’è una pesantezza non indifferente nel guardare tutto questo per decine di minuti. È l’opposto di quella strana forma di leggerezza da Kechiche (senza l’ossessione dei corpi) che Nuestro Tiempo esibisce nei primi minuti tra i ragazzi.

C’è però qualcosa in questo film che non si può far finta che non esista e che prescinde dalla valutazione di tutta l’opera. Ci sono un paio di momenti così sublimi e devastanti che mettono il dubbio che forse un film intero di tre ore potrebbe anche reggersi su una scena sola pazzesca, potente, misteriosamente attraente e commovente. Prima è un concerto di musica classica, vissuto guardando chi lo sta fruendo in mezzo al pubblico, intenso come poche volte capita al cinema e poi quella che probabilmente è la miglior singola sequenza vista da anni a questa parte.

Lui e lei, uno a cavallo e l’altra in auto, marciano insieme sotto la pioggia battente verso la stessa direzione, con Carpet Crawlers dei Genesis che esce dall’autoradio (a partire dalla strofa con toni bassi di un cantante noto per quelli alti). Nessuna regola del linguaggio del cinema è rispettata, non c’è nessuna delle convenzioni che conosciamo, è un momento che sembra parlare una lingua sua mescolando lo stile dei videoclip e delle pubblicità a quello dei film per arrivare ad una morbidezza soffice, calda, commovente e disarmante.

Vediamo volti, obiettivi deformanti e con un colpo assurdo incomprensibile le sospensioni, il motore, i pistoni e tutto si oscura in una dissolvenza verso il nero che spegne anche la musica. Dopo qualche secondo di silenzio nero riemerge l’immagine a grandissima fatica, lentamente (assieme alla musica!) in una scena di amplesso non furioso ma anch’esso morbido e umido. Scena chiarissima nel suo intento (la tensione verso un atto in cui l’eccitazione della conclusione non è minore a quella dell’aspettativa) e misteriosa nel percorso tramite il quale ci arriva, è quel raro istante in cui ci si rende conto di guardare qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che si conosce, che però funziona ad un livello istintivo prima che cerebrale, come non si fosse mai visto prima un film e se ne venisse investiti. Un pezzo di cinema mai visto prima che si vorrebbe subito rivedere.

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