Venezia 75 - Killing, la recensione

Storia di samurai che ribalta gli assunti base del genere, Killing è un film 100% Tsukamoto in cui il metallo è il terrore della carne e il protagonista è massacrato da ossessioni di violenza e impotenza

Critico e giornalista cinematografico


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Anche se può sembrare il contrario all’inizio di questo film, Shinya Tsukamoto, 29 anni dopo Tetsuo, non accenna a normalizzarsi. Ed è una notizia di cui il pianeta intero dovrebbe gioire.
In quella spada che vibra e trema assieme all’inquadratura nell’inizio di Killing c’è tutto il dissidio tra quel metallo tagliente e duro e la materia molle costituita dal protagonista, samurai che non ha mai ucciso e ha timore di farlo, che trema nel tenere quello strumento di morte, che è visibilmente terrorizzato e somatizza quel terrore in un’impotenza sessuale che lo massacra. Servirà a poco impostare le basi del racconto con grande calma e controllo (che bravo!), con una quiete quasi irreale, perché lo stordimento che il metallo letale porta nella vita, nella testa e nelle viscere è dietro l’angolo.

Sempre funzionale al suo obiettivo, cioè rappresentare la tragedia carnale che è vivere un dissidio interiore, avere paura, non essere all’altezza dei propri desideri, stavolta Tsukamoto ha dei momenti anche di dolcezza, degli idilli ovviamente molto sessuali, provocanti ed eccitanti eppure così teneri che aumentano la tensione del samurai verso la propria impotenza omicida. Arriverà un altro samurai più esperto e potente (lo stesso Tsukamoto) a sbloccare la situazione, proponendogli di unirsi a lui in una crociata per lo Shogun. Stavolta dovrà uccidere e il solo pensiero lo fa crollare a terra dalla febbre improvvisa.

La virilità e le aspettative che il mondo inserisce a forza nella testa degli uomini sono un problema gigantesco per Tsukamoto almeno da Tokyo Fist in poi, uno che si misura con il suono pazzesco dei colpi a vuoto della spada di metallo ed esplode nel finale mostruoso di questo film, in cui capiamo davvero qual è la storia che ci è stata raccontata (come Killing viene chiuso mostra un punto d’arrivo e quindi fa capire che percorso abbiamo guardato per i precedenti 80 minuti).

Viene da urlare alla visione di questo film attraversato da una scarica elettrica ogni qualvolta ci si avvicina all’atto di uccidere, in cui il protagonista fa di tutto, si fa amico i nemici pur di non ammazzare ma che sarà ad un certo punto costretto a farlo per sopravvivere. Tsukamoto è l’unico regista che invece di usare i sentimenti per dare senso a una storia, usa una storia per poter rappresentare l’urlo interiore di un essere umano in difficoltà, lo sgomento profondo di fronte al confronto tra l’acciaio e la carne, il terrore del confronto impari tra la potenza distruttiva del primo e la fragilità mortale della seconda.

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