Venezia 75 - Driven, la recensione

Driven di Nick Hamm prende spunto dalla vicenda biografica di John DeLorean per costruire una godibile parabola sulla menzogna

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Come già avvenuto col precedente Il Viaggio, presentato due anni fa a Venezia, anche con Driven il regista nordirlandese Nick Hamm e il conterraneo sceneggiatore Colin Bateman prendono spunto da una vicenda reale per ridipingere sostanzialmente da zero il ritratto di un'intensa amicizia virile e, con essa, mostrare uno spaccato sociale e politico di un preciso momento storico.

Abbandonata la natia Irlanda, Hamm e Bateman si spostano negli Stati Uniti di Ronald Reagan e raccontano, in salsa di commedia, la storia del legame tra John DeLorean (Lee Pace), fondatore dell'omonima casa automobilistica, e l'informatore dell'FBI James "Jim" Hoffman (Jason Sudeikis), vicino di casa dell'imprenditore nonché causa della sua rovina.

Asse portante di Driven è la menzogna: se Jim viene da subito connotato come un bugiardo seriale, abituato a mentire alla famiglia per portare avanti i propri loschi traffici di droga nell'America reaganiana, le falsità di John emergono più lentamente, attraverso sapienti dettagli disseminati nella sceneggiatura. Dai ripuliti aneddoti infantili per arrivare alla chirurgia estetica, ogni scelta del magnate sembra atta a conferirgli una facciata per coprire le tenebre del suo passato tanto quanto del suo presente.

In questo senso, Driven punta in egual misura sul salace script di Bateman e sulle vibranti interpretazioni di Sudeikis e Pace, facce diverse di un sogno americano messo a nudo in tutta la propria conturbante pericolosità. Se al primo, motore della trama, è affidato un ruolo dalle tinte più vivaci - ma agli sprazzi comici si frappongono fugaci e toccanti pennellate di malinconia e rimpianto - il DeLorean di Pace viene indagato nelle pieghe private più che negli sfavillii pubblici, lasciando consapevolmente lo spettatore nel dubbio sulla reale natura del personaggio.

Siamo di fronte a un altruista disposto a tutto pur di aiutare le famiglie irlandesi a cui, con la propria azienda, dà lavoro o, piuttosto, a un abile affabulatore consumato dal proprio narcisismo? Difficile a dirsi, per citare una battuta fondamentale della sceneggiatura di Bateman, culmine di un rapporto ambiguo ma non per questo privo di vivida passionalità. Tra le quattro mura domestiche, amati ma mai davvero compresi dalle donne che hanno al loro fianco, i due uomini portano avanti un'esistenza illusoria, figlia di fantasie mai compiutamente realizzate, specchio di un idillio irreale destinato a portare entrambi all'inevitabile caduta.

Il gioco delle parti si articola secondo uno schema di sovversione, laddove la nostra fiducia passa da John a Jim nel corso del film per finire, in ultima battuta, in un luogo intermedio che determina l'assoluzione morale dei due protagonisti; sebbene non santifichi i suoi eroi, Hamm strizza l'occhio al pubblico costruendo un racconto di finzione che lascia più vittime che carnefici sul campo di battaglia. Forse è tutto falso ma, filosoficamente, che senso avrebbe inseguire la pedissequa veridicità dei fatti per narrare la storia di due bugiardi?

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