Venezia 75 - Dragged Across Concrete, la recensione

Secco, asciutto ma anche capace di esplorare a fondo caratteri e motivazioni fino allo stremo prima di giungere all'agognata azione - Dragged Across Concrete è magnifico

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un posto, un luogo o una situazione a cui i film di Craig S. Zahler tendono. Bone Tomahawk l’ha rivelato a tutti, Brawl in Cell Block 99 l’ha confermato e ora Dragged Across Concrete lo sancisce: questo è il John Carpenter dei nostri anni. E lo è non per la versatilità ma per la capacità di andare sempre al punto senza fronzoli, dando l’impressione di sapere benissimo cosa conti e cosa no.

Essenziale, secco, autoironico, appassionato di uomini duri e narratore fino, S. Craig Zahler mette sempre i suoi personaggi in condizione di dover raggiungere qualcosa, creando aspettative e facendo montare la tensione verso il mantenimento della promessa di violenza che nel titolo. Stavolta ci vogliono due ore (120 minuti!) per arrivare al dunque, un tempo record, ma di nuovo (proprio come in Bone Tomahawk) quelle due ore sono la parte più bella.

Due poliziotti (Gibson e Vaughn) sono stati sospesi perché filmati mentre brutalizzano un criminale, non verranno pagati per il periodo in cui non lavorano e possono scordarsi le promozioni. Però hanno bisogno di soldi, molti, specie uno dei due, il più vecchio e incattivito, la cui famiglia deve cambiare quartiere perché troppo malfamato (è preoccupato per la figlia che viene sempre più bullizzata). Decidono così di indagare anche se sono sospesi, intercettare un criminale gonfio di soldi e prenderglieli. Non sanno che il crimine in questione non è quello che si aspettano e tutti i pedinamenti, gli inseguimenti silenziosi senza farsi vedere e la preparazione allo scontro non li prepareranno a sufficienza. In mezzo poi c’è anche un afroamericano appena uscito di galera, assoldato per aiutare i criminali che non sta né con gli uni né con gli altri.

Poliziotti stufi ed ex criminali con poca fiducia nel sistema, si respira un’aria reazionaria da Giustiziere della Notte in certe scene e invece una da Boyz ‘n The Hood in altre. “Non credevo che sarei mai diventato razzista” dice Gibson ma le immagini ci fanno capire (e anche a questo servono le due ore preliminari) che non è il pregiudizio a fomentare l’odio ma la vita in un quartieraccio e il lavoro “through the concrete” cioè nei bassifondi (glielo spiega così il suo ex collega e ora capo Don Johnson). Tutto è utile al montare della tensione verso il raggiungimento, Zahler usa lo stesso trucco degli indiani di Bone Tomahawk, estremizza le figure, fomenta il conflitto, dipinge dei cattivi indiscutibili e odiosi per far aumentare la rabbia e le aspettative, di spettatori e protagonisti, sapendo che il finale sarà all’altezza.

C’è onestamente da ammirare la capacità di questo cineasta di girare un film d’azione di 160 minuti in cui l’azione vera ammonta a poco più di 15, pieno di dialoghi ma di poche parole. Sono così tante le cose da dire (spesso futili ma sempre decisive) che può permettersi di farle dire ai personaggi con grande economia, farli conversare con frasi di 5 parole massimo. L’importante è come questo regista e sceneggiatore riesca a dipingere due uomini e un mondo infame con raro minimalismo (visto il genere). Gibson è perfetto e Vaughn (non sempre al livello) è un’ottima spalla.

Poi il finale darà quella soddisfazione amara che chi conosce i film di Zahler sa di potersi aspettare, ma il punto di tutto è questa vita da sbirro, indurita dal tempo, animata dagli affetti della famiglia, dipendente dalla parola del compagno e incattivita contro i criminali, ovvero l’ossatura stessa del genere che Zahler padroneggia perfettamente.

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