Venezia 75 - Dachra, la recensione
Horror tunisino d'ambientazione montana, Dachra non è sempre impeccabile ma mostra una vitalità e uno spirito cinematografico molto più autentici del solito cinema da festival nordafricano
Dachra riprende i boschi delle montagne tunisine come un luogo dell’orrore all’italiana, uno buono per i primi film di Avati o per uno dei mille horror prodotti in Italia negli anni ‘70: poco praticato, poco noto e non immediatamento collegato alla paura, ma popolato da una realtà contadina onesta e semplice che nasconde il marcio e in cui la religione è ciò che spaventa. Sono gli horror in cui la paura si nasconde nei luoghi dimenticati, al margine della società dove sembra non arrivare la civiltà. Lì arriva una troupe di studenti in cerca di un possibile film, che indagano così tanto fino a sfrugugliare qualcosa in cui si trovano intrappolati.
In questa intercapedine esiste Dachra, non sempre impeccabile tecnicamente (una scena di paura in libreria è un po’ buttata via da una messa in scena debole e poco esperta) e un po’ ingenuo nello svelare il grande mistero finale, che è un peccato perché invece la necessaria escalation che serve la sa far funzionare. Questo film che svela uno scenario nuovo e diverso sul cinema nordafricano, lontano dai soliti film tutti uguali che ci arrivano fatti a misura di festival, è una piccola boccata d’aria fresca (presentata alla Settimana Della Critica di Venezia), forse un po’ inesperta rispetto agli standard occidentali, ma che comincia nel sangue con un sacrificio umano e finisce nella paura come deve, una che (a differenza del resto) ci parla davvero del posto da cui viene.