Venezia 75 - Charlie Says, la recensione

La nostra recensione del film Charlie Says, in concorso nella sezione Orizzonti alla 75. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

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Mary Harron, regista di American Psycho e recentemente della serie L'Altra Grace, porta con Charlie Says la storia di Charles Manson sul grande schermo raccontandola dal punto di vista di tre ragazze che sono state condannate a morte, sentenza poi trasformata in ergastolo, a causa degli omicidi che hanno sconvolto gli Stati Uniti negli anni Sessanta.

La storia di Leslie (Hannah Murray), Patricia (Sosie Bacon) e Susan (Marianne Rendón) viene ripercorsa attraverso un alternarsi di due diverse dimensioni temporali, passando dalle giornate trascorse in carcere, dove incontrano un'educatrice (Merritt Wever), presenza utile a creare un legame con gli spettatori, che prova a farle ritornare in contatto con il mondo esterno attraverso lezioni e letture, e le giornate trascorse nel ranch di Manson (Matt Smith), il leader carismatico che le ha portate dal desiderio di vivere in una società utopica e all'insegna dell'amore e uguaglianza alle brutali uccisioni di cui sono colpevoli. Il lungometraggio, prevalentemente narrato seguendo lo sguardo di Leslie, o Lulu come viene chiamata da Manson, mostra la discesa agli inferi delle tre ragazze e la progressiva presa di coscienza dell'atrocità compiuta, allontanandosi dalla convinzione di aver agito per un bene superiore, come le aveva convinte l'uomo con il suo costante condizionamento mentale compiuto per annullare l'individualità e l'ego dei membri del suo gruppo.

La regia di Mary Harron è molto attenta nel seguire come le debolezze del personaggio da Hannah Murray, conosciuta dal grande pubblico per il suo ruolo di Gilly in Game of Thrones, siano state determinanti nel segnare in modo drammatico il suo destino. L'interprete di Leslie possiede il giusto insieme di innocenza e ingenuità per risultare credibile nella parte di una ragazza che si lascia convincere a seguire le direttive di Manson, mantenendo sempre una dose di incertezza che traspare dalle espressioni, dalle pause, dai dubbi evidenti che fanno emergere la consapevolezza di essere alle prese con una situazione complicata e che possiede un lato oscuro inizialmente non evidente, nascosto dietro la leggerezza, le droghe leggere, il sesso libero e senza pudori e legami apparentemente indossolubili. La regista, inoltre, sa creare i giusti contrasti visivi tra luci e ombre grazie a un intelligente uso degli spazi e della fotografia curata da Crille Forsberg, rendendo la permanenza delle tre protagoniste dietro le sbarre fredda e asettica e il periodo trascorso nella comunità all'insegna di paesaggi assolati e ombre che accompagnano i momenti in cui il leader non trattiene la propria violenza e porta all'estremo le sue idee, proponendo un'atmosfera sempre più cupa mentre ci si avvicina ai sanguinosi crimini che sono entrati nella storia. Uno dei punti deboli del progetto è però rappresentato proprio dal modo in cui viene portato in scena l'omicidio di Sharon Tate, compiendo forse l'errore di mostrare troppo quanto accaduto, smorzando l'impatto, anche dal punto di vista emotivo, delle brutali uccisioni. Degli eventi così conosciuti non avrebbero forse avuto bisogno di essere raccontati con troppi dettagli, come invece accade sullo schermo, lasciando alla sensibilità degli spettatori comprenderne la portata e la drammaticità.


L'ex Doctor Who Matt Smith, dopo il successo di The Crown, compie una nuova trasformazione fisica per calarsi nella parte di Manson e la sua interpretazione risulta convincente ed efficace (anche nell'inedita versione cantante), mantenendo tutte le contraddizioni che contraddistingono la personalità del leader del culto: dal desiderio di fare carriera nel mondo della musica alla condanna della società consumista, dalla dolcezza con cui aiuta le sue "seguaci" ad accettarsi e trovare la propria bellezza alla durezza con cui le aggredisce nel momento in cui vanno contro i suoi ordini o mettono in dubbio le sue idee. Smith appare carismatico e fisicamente adatto alla parte, dominando la scena nel suo confronto con la fragilità emotiva e fisica delle ragazze, rendendo comprensibile il modo in cui tre giovani "normali" siano arrivate a compiere delle azioni così terribili.

Le presenze maschili, con l'esclusione ovviamente di Manson, rimangono marginali e poco delineate, scegliendo volontariamente di concentrarsi totalmente sulle tre condannate. La scelta di porre al centro della storia il percorso compiuto da Leslie mette un po' in secondo piano i personaggi interpretati da Marianne Rendón (Imposters) e Sosie Bacon (Tredici), essenziali invece nelle sequenze ambientate nel carcere dove l'isolamento a cui sono sottoposte le porta ad avvicinarsi ancora di più, situazione resa evidente dal momento in cui le tre si augurano buona notte o dai modi in cui interagiscono, quasi come se fossero una mente unica, durante i confronti con Karlene, una Merritt Wever sempre in grado di rendere i personaggi che le sono affidati ricchi di sfumature, nonostante uno spazio in scena piuttosto limitato. La trasformazione vissuta dalle tre condannate risulta comprensibile attraverso gli atteggiamenti e le interazioni tra loro, mostrando cosa le differenzia nell'approccio ai crimini compiuti grazie alle risposte date a Karlene, alle reazioni ai suoi input e ai momenti di solitudine vissuti nella propria cella, obbligate a riflettere su se stesse e a ritornare progressivamente a contatto con una realtà che non sia guidata dagli insegnamenti di Manson.

Charlie Says, senza scivolare nella retorica (tranne in un passaggio alla Sliding doors non realmente necessario per la buona riuscita della narrazione), riesce nel suo intento di spiegare i processi mentali che portano delle persone normali a compiere scelte profondamente sbagliate, un po' come accadeva proprio in Alias Grace, lo show tratto dal romanzo scritto da Margaret Atwood disponibile su Netflix. L'attenzione con cui si sono curati i vari aspetti del lungometraggio, tra cui anche la colonna sonora e i costumi, contribuiscono a creare un contesto storicamente piuttosto accurato, riportando gli spettatori agli anni Sessanta, ai suoi colori e alla sua leggerezza.

La decisione di spostare l'attenzione dalla storia di Manson a quella delle tre giovani risulta così vincente e ben sviluppata, portando a un risultato, forse non memorabile, ma senza alcun dubbio di buon livello sotto ogni punto di vista, tecnico e artistico.

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