Venezia 74 - West of Sunshine, la recensione

Jason Raftopoulos presenta a Venezia il suo West of Sunshine, parabola di redenzione improbabile di un irresponsabile padre di Melbourne

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Per redimersi dai propri errori, a volte, non basta una vita; può essere sufficiente una giornata? Questa la domanda al centro dell'australiano West of Sunshine di Jason Raftopoulos, presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti. Il film si snoda durante durante le ore diurne di un giorno da cani per il protagonista Jim (Damian Hill), che entro la sera dovrà restituire allo strozzino Banos (Tony Nikolakopoulos) i 15 mila dollari ottenuti in prestito.

Nel goffo tentativo di rimediare a un errore iniziale, Jim inizia a sbagliare una mossa dopo l'altra, ragionando - o meglio, sragionando - con l'ottusità tipica di chi vede avvicinarsi la catastrofe senza avere i mezzi - mentali prima ancora che economici - per gestirla. A enfatizzare la drammatica corsa contro il tempo dell'uomo c'è la presenza costante del figlioletto Alex (Ty Perham), affidatogli in quel giorno dall'ex moglie Karen (Faye Smythe) impegnata col lavoro.

Proprio al rapporto tra Alex e Jim si devono i momenti più delicati e toccanti del racconto di Raftopoulos, che si perde per lo più nella concatenazione di eventi (spesso poco verosimili) che non fanno che acuire il nostro fastidio nei confronti dell'irresponsabile imbecillità del protagonista. La parabola morale dell'uomo non convince mai e, sebbene la sua crescente irrazionalità appaia figlia di un ticking clock angosciante, la soluzione più ovvia al suo problema viene indicata già nelle prime scene, e il racconto si riduce alla prevedibile escalation di sfighe di un cretino in cui ben pochi potranno identificarsi.

L'inconcludenza del dramma di Jim è paradossalmente aggravata da un finale pressappochista che lascia intravedere un'evoluzione irrealistica e leziosamente buonista per un personaggio che, fino all'ultimo, incassa colpi che potrebbe facilmente evitare usando un minimo sindacale di buon senso. Perché dovremmo credere alla maturazione di un grammo d'intelligenza nell'uomo potenzialmente più stupido di tutta l'Australia, è mistero che Raftopoulos non riesce a risolvere nei settantotto - viva la brevità! - minuti del suo racconto.

A riscattare il film dal peso di una bocciatura dovuta al contenuto e mai alla forma, oltre alla già citata chimica tra Hill e Perham (patrigno e figliastro nella vita reale), c'è la suggestiva colonna sonora di Lisa Gerrard e James Orr, spesso accostata a scene non all'altezza dell'enfasi travolgente delle note, e una fotografia luminosa e gentile nel carezzare tanto i disgraziati protagonisti quanto le architetture a misura d'uomo di Melbourne, in cui ogni minaccia risulta quasi miniaturizzata rispetto alle inquietanti, grigie atmosfere spesso viste in controparti americane che affrontassero tematiche analoghe.

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