Venezia 74 - Undir Trénu, la recensione

Presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, l'islandese Undir Trénu raffigura con cupa ironia i rapporti di vicinato tra due famiglie

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Dopo il fortunato esordio dello scorso anno con Hjartasteinn di Guðmundur Arnar Guðmundsson, delicato dramma adolescenziale che si è aggiudicato il Queer Lion 2016, il cinema islandese torna al Festival di Venezia illuminando il Lido con il cinico humour di Undir Trénu (Sotto l'albero) di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, presentato oggi nella sezione Orizzonti.

Carezzati con distaccata indifferenza dai raggi di un sole tiepido, due nuclei familiari esemplificano con grottesca meschinità una parabola di pessimo vicinato, in un'escalation drammatica inframezzata da irresistibili sprazzi di umorismo nero. Al centro della disputa iniziale, l'albero che svetta nel giardino degli anziani Baldvin (Sigurður Sigurjónsson) e Inga (Edda Björgvinsdóttir), colpevole di far ombra al vicino cortile di Konrad (Þorsteinn Bachmann) e dell'avvenente moglie Eybjorg (Selma Björnsdóttir), assetata d'abbronzatura. La sequela di angherie tra le due coppie s'intreccia al dramma coniugale di Atli (Steinþór Hróar Steinþórsson), figlio di Baldvin e Inga, in crisi con la moglie Agnes (Lára Jóhanna Jónsdóttir) e impossibilitato a vedere la figlia Asa.

Sigurðsson sa alternare sapientemente il registro brillante a quello più melanconico, benedicendo con ironia la risata crudele che innesca in alcuni momenti di per sé tutt'altro che allegri. Così, sotto una luce grigia che ne smorza ogni tono vivace, divampa la fiamma della violenza, in declinazioni concatenate in cui s'assottiglia, via via, la componente più razionale, per degenerare in delirio ferino.

Solo la natura, flora o fauna che sia, resta incolpevole nel quadro intriso di becera brama vendicativa dipinto in Undir Trénu: l'uomo e la donna di Sigurðsson sono visceralmente portati alla distruzione, che si tratti di rapporti umani, di beni materiali o, peggio, delle proprie stesse vite. E il pubblico, solleticato dalla mano del regista, gode di queste disgrazie, esonerate dal peso di qualsivoglia tentazione moralista e mirabilmente sostenute da performance attoriali asciutte e coinvolgenti.

Non c'è spazio per alcuna lezione, nel racconto amorale di Sigurðsson; è il divertito ritratto di un'apocalisse relazionale, nonché l'arguta trasposizione - in termini sentimentali - di un effetto farfalla che finisce per generare, di dispetto in dispetto, un ciclone brutale di sprezzante godibilità.

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