Venezia 74 - The Devil and Father Amorth, la recensione

Presentato nella sezione Fuori Concorso del Festival di Venezia, The Devil and Father Amorth di William Friedkin è un gioco godibile e compiaciuto

Condividi

"Sappiamo che il Male esiste, come esiste il Bene," asserisce con convinzione ostentata il regista, spesso operatore e comunque protagonista William Friedkin alla fine del suo divertissement documentaristico The Devil and Father Amorth, presentato nella sezione Fuori Concorso del settantaquattresimo Festival di Venezia. In poco più di un'ora di film, il cineasta usa ogni mezzo a propria disposizione per sospendere l'incredulità dello spettatore di fronte alla sua accurata e accorata indagine sull'ultima missione (quasi) impossibile di Padre Gabriele Amorth, per 31 anni esorcista della diocesi di Roma.

Costruendo sin da subito il proprio racconto avvalendosi di stratagemmi desunti dal cinema horror - a partire da una colonna sonora impudentemente invasiva - Friedkin tesse le fila della propria trama da abile narratore qual è, compiacendosi e convincendo(si?), in un gioco godibilissimo e volutamente sopra le righe che trascina lo spettatore su un palcoscenico animato e caotico di cui Padre Amorth è l'indiscussa primadonna.

Il carisma del prelato - che non manca di sbeffeggiare Satana con profusione di sberleffi e dispensare battute di spirito a pochi minuti dalla fine del rito - offre, già di per sé, materia di riflessione; se a esso aggiungiamo la peculiarità del caso della giovane Cristina, reduce da otto esorcismi fallimentari e coprotagonista di Amorth nell'epica, tesa ripresa dell'estremo tentativo di liberazione dalle spire del demonio, il risultato finale è - sul fronte drammaturgico - estremamente convincente.

Non manca, è vero, un tentativo di razionalizzazione della possessione diabolica, grazie alle interviste a un buon numero di psichiatri e neurologi le cui risposte, vaghe quanto serve alla causa di Friedkin, calano l'evento soprannaturale nel contesto culturale in cui affondano le radici psicologiche della vittima. Tuttavia, in un sapiente esercizio che piega ma non spezza le testimonianze nel verso più favorevole alle proprie esigenze, il regista erige una cattedrale di suggestioni tanto coerente da seppellire ogni eventuale anelito alla verità.

Che Friedkin creda o meno a ciò che dichiara senza esitazione alcuna, è mistero che resterà insoluto quanto le ragioni che si celano dietro il fenomeno della possessione; ciò che c'interessa è la fede incrollabile nel suo prodotto, perché l'arte (e l'artificio) è il terreno di gioco dove il regista di L'Esorcista sa muovere con strategia pressoché infallibile le proprie pedine, tenendo in scacco il nostro scetticismo e subordinandolo all'innegabilità del divertimento.

Continua a leggere su BadTaste