Venezia 74 - Pin Cushion, la recensione
La violenza della provincia, del sesso e dei conflitti si abbatte su una madre e una figlia dolci. Pin Cushion però non ha nemmeno un briciolo di ruffianeria
Questa favoletta che favola non lo è per davvero ma ama riprendersi e considerarsi tale per acuire il marcio che racconta, è un’educazione sessuale senza ritegno in un mondo senza affetti. E per questo Deborah Haywood riesce a trovare una vena unica come il genere non ha conosciuto: perché non ha nessuna voglia di piacere.
Così pasticcioso e dolciastro da generare repulsione più che attrazione, il mondo di Pin Cushion finge di essere ideale e desiderabile ma ad ogni inquadratura svela la sua falsità e la sua abietta morale. La trascuratezza con cui questa cineasta al primo lungometraggio, catturata dalla Settimana della Critica al Festival di Venezia, riprende i dolori e le malefatte, il bullismo e il sangue, è una delle affermazioni più serie e potenti di individualismo. Una reazione che il cinema trascura quando si parla di maltrattamenti o di vite difficili e che invece è la più comune: ritrarsi, essere egoisti, pensare a sé.