Venezia 74 - Nico, 1988: la recensione

Il primo film della sezione Orizzonti del Festival di Venezia è Nico,1988: un ritratto di grande potenza, esaltato dalla performance di Trine Dyrholm

Condividi
Si apre sulla voce roca di Trine Dyrholm la sezione Orizzonti del Festival di Venezia, da sempre incontrastato scrigno di prodotti sperimentali di alterno successo. L'attrice e cantante danese, già ispirata interprete di Un Mondo MiglioreLove Is All You Need di Susanne Bier e dell'osannato Festen di Thomas Vinterberg, presta (tantissimo) corpo e (altrettanta) anima alla sua Christa Päffgen, in arte Nico, nel conciso ma vivido schizzo biografico Nico, 1988.

Senza tremare d'incertezza di fronte alla tragica complessità del personaggio Nico nella fase terminale del proprio percorso umano e professionale, né cedere alle facili lusinghe di un moralismo tanto consolatorio quanto poco in linea con la protagonista, Susanna Nicchiarelli modella la propria storia su uno scheletro di testimonianze dirette, che restituiscono un ritratto di donna impossibile da trattare e, per questo, paradossalmente irresistibile.

Pur affidando il maggior peso drammatico alle forti spalle di Trine Dyrholm, le traversie di Christa divengono occasione per un viaggio di due anni (dal 1986 al 1988 citato nel titolo) in un'Europa ancora divisa dal Muro, che l'artista e la sua band attraversano incontrando, di volta in volta, la rilassata familiarità del pubblico di Anzio, la compassata noncuranza britannica e l'entusiasmo ferino e carnale dei giovani di Praga, ancora vessati dalle ultime asperità di un regime al tramonto.

Qui, nella scena madre del film, Nico si scatena in una performance memorabile, a dispetto della crisi d'astinenza da eroina che la devasta, moderna menade che sottolinea la componente esclusivamente dionisiaca della sua parabola. Fino all'ultimo sminuirà - giustamente - il suo passato nei Velvet Underground, sfoggiando le rughe come un trofeo che la distacchi per sempre dai trascorsi da bella statuina; fino all'ultimo, ancora, tenterà la tardiva conciliazione del ruolo di madre e artista, dedicando al tormentato figlio Ari una dolcezza pressoché esclusiva, effimero atollo di pace in una tempesta perenne.

Continua a leggere su BadTaste