Venezia 74 - Mektoub, My Love - Canto Uno, la recensione
Denso di parole leggere e impalpabili ma anche di corpi pesanti che riempiono lo schermo, Mektoub, My Love, è un capolavoro destinato a segnare il cinema
Di nuovo qui ogni inquadratura afferma perentoriamente il dominio del corpo nella vita umana, come sia la fonte di ogni debolezza e forza, come nessuno possa trattenere razionalmente quello che i propri istinti gli comandano. Nelle tre ore di un film che conta un numero di scene pari a qualsiasi altro ma le dilata a dismisura, c’è un tripudio di dialoghi, un fiume di parole scambiate nei più vacui discorsi, perché a contare è solo il dialogo del corpo. Mentre questi ragazzi in vacanza in una spiaggia nel sud della Francia nel 1994 fanno quello che fanno i ragazzi d’estate (odiarsi e amarsi, darsi fastidio e chiamarsi), Kechiche come Amin guarda da vicino i dettagli della loro attrazione, gira primi piani dei loro ombelichi, delle natiche, illumina con la luce del tramonto le trasparenze dei costumi e fa di tutto per comunicare la potenza attrattiva del loro essere giovani e belli. Li rende irresistibili.
In ogni caso Mektoub, My Love riesce a catturare ancora meglio di La Vita di Adele il mistero della comunicazione non verbale, riesce ad imprimere nello sguardo di una ragazza un desiderio così flagrante da essere al tempo stesso gioioso e terribile, suggerisce la vetta dell’essere travolti da un istinto e l’abisso della frustrazione nel non poterlo saziare, riesce insomma a mettere in scena le pulsioni primarie come nessuno è mai riuscito a fare.
Ridere, piangere, amare, mangiare, penetrare, possedere e desiderare, non esiste altro. Anche un semplicissimo pranzo in spiaggia a base di spaghetti allo scoglio, tramite il montaggio di Arthur Boulegue e la luce di Marco Graziaplena, diventa un’affermazione della gioia stessa di essere vivi.
Superando l’esigenza di un intreccio e uno svolgimento propriamente detti, Kechiche approda ai lidi di Richard Linklater, al cinema che scarta l’eccezionale e abbraccia il quotidiano, scovando non in una girandola di eventi ma in ogni singola azione, a prescindere dalla sua importanza, le immagini che gli servono a raggiungere i propri fini.
Non casualmente aperto da due citazioni, una dal Corano e una dalla Bibbia, riguardo la luce, Dio e l’uomo, Mektoub, My Love è anche il film dalla fotografia più sofisticata di questo regista che fino ad ora si era nascosto dietro le proprie opere, mentre adesso è sempre più protagonista, ha la mano sempre più decisiva. Girato in gran parte al tramonto e determinato a mettere in scena le luci stesse, Mektoub, My Love adora il sole e con l'ampio uso di musica sacra non nasconde di vedere in esso un'emanazione divina. Ma del resto adora anche l’illuminazione fasulla della discoteca, in cui ambienta una sequenza di più di mezz’ora come il cinema non ne aveva mai conosciute, una festa dei corpi, del sudore, della fatica della parola e degli sguardi in cui tutto è chiaro e insieme tutto è caotico, non contrapposta come sarebbe facile fare al senso del sacro.
Se La Vita di Adele raccontava una ragazza che al termine della propria adolescenza viene sorpresa dalle esigenze del proprio fisico, fulminata da un bisogno di sesso omosessuale che non conosceva e non aveva mai considerato, ma la investe con una potenza devastante, comunicata tramite le scene di sesso filmato con una chiarezza inedita e poi tramite la lunga disperazione della fine dell’amore, Mektoub, My Love sceglie di essere ancora più radicale e allarga il discorso ad ogni altro essere umano sullo schermo, raccontando una delle storie più importanti in assoluto, quella del retaggio animale e istintivo della razza umana.