Venezia 74 - Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, la recensione

Un paesino, uno sceriffo e una donna in cerca dell'assassino di sua figlia, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri ha una scrittura vivace e basta

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
C’è stato un fatto efferato, una ragazza è stata bruciata e violentata, ma a quanto pare non si è trovato il responsabile e la madre ritiene che la polizia non stia lavorando come dovrebbe. Per questo affitta tre cartelloni sui quali fa scrivere gigante un’accusa di ignavia al capo della polizia. Quest’evento scatena il film.

La polizia darà il suo peggio (razzismo, protezionismo, abuso di autorità, mancanza di ordine) e la stessa madre che ha commissionato l’affissione non si dimostrerà di certo migliore.

Non è certo una favola morale Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, anche se nel finale sembra recuperare un intento più alto ed etico, è semmai un film di idioti, una commedia molto nera, molto dura e molto poliziesca. Cittadine marginali, piccoli sceriffi di campagna che di giorno hanno il distintivo ma di sera prendono una birra e continuano a provocare al bar. Tutti si conoscono anche se sembrano ignorarsi e un affronto simile non può rimanere impunito.

C’è un velo di umorismo irresistibile in questo nuovo film di Martin McDonagh, quello stesso umorismo esplosivo e inatteso che coglie sempre impreparati e sembra trovare ogni volta la gag meno prevedibile, che era possibile apprezzare in 7 Psicopatici e In Bruges. Stavolta però c’è anche un trama più consueta, una storia western contemporanea di presa di coscienza collettiva in una piccola cittadina. Ma mai come stavolta McDonagh rinuncia alle stranezze e cerca di essere lineare e convenzionale.

Tanto che dietro il grande divertimento e le molte trovate inattese che animano la sceneggiatura, non si scorge molto altro. La stessa trovata dei cartelloni del titolo è un trucco attraente e inusuale che mette in moto tutto ma che non ha nessun senso reale se non accendere una miccia che poteva essere accesa da qualsiasi altra provocazione senza che facesse alcuna differenza.
Se In Bruges creava una strana malinconia da bilancio di una vita, in un luogo impensabile e con un senso del ridicolo funzionale a scardinare la classica figura del gangster, per arrivare ad un’umanità inattesa, qui è solo umorismo. La storia e i personaggi che esalta non sono all’altezza delle battute argute.

Nonostante Rockwell sia bravissimo a lavorare sul crinale del clown senza sfociare mai nel caricaturale, ma anzi rimanendo molto umano, e Frances McDormand animi una donna dura e tutta d’un pezzo, intelligenza fina, carattere aspro e testaccia dura, lo stesso tutti questi ottimi sforzi prendono al massimo una piega lieve da drammetto. Finiscono con qualche lettera letta versando una singola lacrima, con una confessione in punto di morte e una bontà che stona molto con il cinismo profuso per il resto della storia. Sembra che davvero senza la travolgente ironia il film non sappia che fare della propria storia.

Continua a leggere su BadTaste