Venezia 74 - Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, la recensione
Un paesino, uno sceriffo e una donna in cerca dell'assassino di sua figlia, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri ha una scrittura vivace e basta
La polizia darà il suo peggio (razzismo, protezionismo, abuso di autorità, mancanza di ordine) e la stessa madre che ha commissionato l’affissione non si dimostrerà di certo migliore.
C’è un velo di umorismo irresistibile in questo nuovo film di Martin McDonagh, quello stesso umorismo esplosivo e inatteso che coglie sempre impreparati e sembra trovare ogni volta la gag meno prevedibile, che era possibile apprezzare in 7 Psicopatici e In Bruges. Stavolta però c’è anche un trama più consueta, una storia western contemporanea di presa di coscienza collettiva in una piccola cittadina. Ma mai come stavolta McDonagh rinuncia alle stranezze e cerca di essere lineare e convenzionale.
Se In Bruges creava una strana malinconia da bilancio di una vita, in un luogo impensabile e con un senso del ridicolo funzionale a scardinare la classica figura del gangster, per arrivare ad un’umanità inattesa, qui è solo umorismo. La storia e i personaggi che esalta non sono all’altezza delle battute argute.
Nonostante Rockwell sia bravissimo a lavorare sul crinale del clown senza sfociare mai nel caricaturale, ma anzi rimanendo molto umano, e Frances McDormand animi una donna dura e tutta d’un pezzo, intelligenza fina, carattere aspro e testaccia dura, lo stesso tutti questi ottimi sforzi prendono al massimo una piega lieve da drammetto. Finiscono con qualche lettera letta versando una singola lacrima, con una confessione in punto di morte e una bontà che stona molto con il cinismo profuso per il resto della storia. Sembra che davvero senza la travolgente ironia il film non sappia che fare della propria storia.