Venezia 74 - Les Garçons Sauvages, la recensione

Sovversivo a partire da un repertorio di immagini che il cinema già conosce, Les Garçons Sauvages non ha remore e centra l'obiettivo

Critico e giornalista cinematografico


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Non fa mistero della sua natura surreale Les Garçons Sauvages e fin dal primo minuto, una fantastica inquadratura in un bianco e nero dal contrasto esagerato, mescola estetico e fasullo, cartapesta con sabbia, vero e simulato, per raccontare tutte le dimensioni dell’istinto adolescenziale fino alla sua conclusione meno scontata.

La storia è quella di alcuni ragazzi altoborghesi e inquieti di inizio ‘900 che, riuniti in gang, abusano di una donna. Saranno processati sommariamente con una violenza non diversa dalla loro e affidati ad un marinaio che sostiene di poterli rieducare tramite un viaggio da cui potrebbero anche non tornare, e nel quale invece approderanno su un’isola del piacere e non solo.

C’è la domanda che regge anche Arancia Meccanica alla base di questo racconto, quanto siano violenti gli individui e quanto lo possano essere, su di loro, le istituzioni? Ma la varietà e quantità di risposte possibili fornite da questo film piacevolmente delirante, messo in scena mescolando protesi, plastica, vera carne, vera vegetazione e fintissimi fondali, non somiglia a niente altro e lo porta su tutti altri lidi cinematografici. Partito come un Boris Barnet surreale e ossessionato dalle funzioni corporali, dal pelo umano e dalle maschere, Bertrand Mandico devìa quasi subito sulle atmosfere hollywoodiane anni ‘30 di L’isola del dr. Moreau o di King Kong ma viste attraverso una lente deformante.

Le peripezie dei ragazzi sulla nave e poi quel che accadrà loro sulle isole in cui finiranno sarà un processo di elaborazione di ogni istinto adolescenziale, in un percorso che passa per la sublimazione della rabbia giovanile, dell’esigenza di uccidere la generazione precedente, della lotta ad ogni autorità, del senso di oppressione e di un vago ma pressante desiderio di soddisfazione sessuale. In tutta risposta i ragazzi saranno vessati, ricoperti di bava e accolti in umide alcove in un trionfo di simbolismo vaginale e fallico da un’isola che è in sé “un’ostrica”.

Eppure la sorpresa più grande del film presentato nella Settimana della Critica arriverà nella terza parte quando si fa chiaro il grande piano che è stato imbastito per loro: come mai siano stati spediti in quest’avventura punitiva e a cosa serviranno.
Mandico fa quel che vuole, passa anche al colore (e lì la fotografia si fa splendida da che era curiosa e inventiva), scambia i sessi, espone i membri (uno anche tatuato) e chiude come se il film fosse diventato il video che i Village People non avrebbero mai potuto girare.

Alla fine sarà evidente l’intento programmatico di scivolare dalla rabbia maschile iniziale ad un ibrido con il femmineo nel finale, ma la maniera in cui questo videoartista si misura con il cinema mantenendo dalla sua professione precedente le suggestioni migliori basta a sé.
Contrariamente all’Alex di Kubrick però, i ragazzi selvaggi che il sistema vuole acquietare, calmare, placare e inglobare diventeranno qualcosa di ancora più sovversivo e meno inquadrabile.

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