Venezia 74 - Les Garçons Sauvages, la recensione
Sovversivo a partire da un repertorio di immagini che il cinema già conosce, Les Garçons Sauvages non ha remore e centra l'obiettivo
La storia è quella di alcuni ragazzi altoborghesi e inquieti di inizio ‘900 che, riuniti in gang, abusano di una donna. Saranno processati sommariamente con una violenza non diversa dalla loro e affidati ad un marinaio che sostiene di poterli rieducare tramite un viaggio da cui potrebbero anche non tornare, e nel quale invece approderanno su un’isola del piacere e non solo.
Le peripezie dei ragazzi sulla nave e poi quel che accadrà loro sulle isole in cui finiranno sarà un processo di elaborazione di ogni istinto adolescenziale, in un percorso che passa per la sublimazione della rabbia giovanile, dell’esigenza di uccidere la generazione precedente, della lotta ad ogni autorità, del senso di oppressione e di un vago ma pressante desiderio di soddisfazione sessuale. In tutta risposta i ragazzi saranno vessati, ricoperti di bava e accolti in umide alcove in un trionfo di simbolismo vaginale e fallico da un’isola che è in sé “un’ostrica”.
Mandico fa quel che vuole, passa anche al colore (e lì la fotografia si fa splendida da che era curiosa e inventiva), scambia i sessi, espone i membri (uno anche tatuato) e chiude come se il film fosse diventato il video che i Village People non avrebbero mai potuto girare.
Alla fine sarà evidente l’intento programmatico di scivolare dalla rabbia maschile iniziale ad un ibrido con il femmineo nel finale, ma la maniera in cui questo videoartista si misura con il cinema mantenendo dalla sua professione precedente le suggestioni migliori basta a sé.
Contrariamente all’Alex di Kubrick però, i ragazzi selvaggi che il sistema vuole acquietare, calmare, placare e inglobare diventeranno qualcosa di ancora più sovversivo e meno inquadrabile.