Venezia 74 - Hannah, la recensione

Contenuto e sommesso, Hannah appartiene al filone tutto italiano "dell'elaborazione silenziosa" ma non smuove nemmeno un alito di sentimento nello spettatore

Critico e giornalista cinematografico


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Uno dei filoni nascosti del cinema italiano d’autore più prolifici a fronte di incassi penalizzanti è quello delle "elaborazioni silenziose". Solitamente si elabora un lutto ma va bene anche un trauma o, come nel caso di Hannah, una scoperta terribile. L’importante è occupare tutto il film soffrendo tantissimo e al tempo stesso facendo di tutto per nasconderlo.

Non è più giovane Hannah e proprio ora suo marito viene arrestato per qualcosa di spaventoso, così indicibile che il film non lo dirà ma ne capiremo la gravità da come Hannah è gradualmente esclusa dalla vita sociale. Non le rinnovano un abbonamento in palestra, non è ammessa dai figli alla festa del nipotino e i vicini di casa le bussano di notte gridandole di vergognarsi. In tutto il film Hannah cercherà di tirare avanti, di farsi una ragione di quest’evento, di elaborare il dramma. Senza mostrarlo.

Pallaoro decide dunque di giocare tutto il suo film ottemperando allo stile dell’elaborazione silenziosa all’italiana. In campo c’è solo la sua protagonista, Charlotte Rampling, lui le sta addosso, la segue e la riprende in azioni quotidiane, tenendo al minimo il ritmo e l’emotività, lasciando che il dolore passi per una dolente solennità, per la dignità fiaccata con la quale si muove, agisce e, ogni tanto, piange.

Purtroppo come nella grande maggioranza di film sull’elaborazione silenziosa anche qui servirebbe tutta un’altra capacità di immaginare, di girare, di comporre le inquadrature e di mettere in scena il mondo dei personaggi per far sì che da esso (e non dalle azioni o dagli eventi) emerga quella terribile insofferenza nascosta. Insomma la capacità non solo di dirigere un’attrice ma anche di creare un ambiente che trasudi quel sentimento così nascosto.

Servirebbe la capacità di osare molto di più di quanto non faccia Hannah, film innocuo sotto ogni punto di vista, nascosto dietro la sua protagonista e disposto a farsi notare solo quando appalta ad oggetti o altri personaggi quel che Hannah non manifesta. La tecnica l’ha portata allo stato dell’arte Wong Kar Wai: raccontare i sentimenti di un personaggio lasciando che questi siano trasferiti agli oggetti intorno a lui, come se le sue emozioni modificassero il mondo. Ma qui un cane che non mangia, un bambino con problemi da accudire, per non dire della esilissima metafora della balena spiaggiata e smembrata fanno sorridere più che precipitare nell’abisso della povera Hannah, e non va meglio la scenata di gelosia di una viaggiatrice della metro che dovrebbe sfogare tutto quello che Hannah non ha detto andando a trovare il marito in prigione.

Addirittura anche quello che sulla carta dovrebbe essere il punto di forza del film, cioè lavorare tantissimo sul corpo e sul volto di una grande attrice, Charlotte Rampling, si rivela un’arma molto più spuntata del previsto. Impeccabile ma non certo devastante, la protagonista assoluta del film non riesce nemmeno lei a fargli compiere il salto di qualità. Dunque alla fine non sarà tanto la noia che regna dal primo minuto e che non abbandona mai il film a far meritare ad Hannah il minimo del gradimento, quanto la superba arroganza insita nella pretesa di poter fare un film dalle premesse così difficili con il minimo dei dialoghi e nemmeno la capacità di generare immagini significative a compensare.

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