Venezia 74 - Hannah, la recensione
Contenuto e sommesso, Hannah appartiene al filone tutto italiano "dell'elaborazione silenziosa" ma non smuove nemmeno un alito di sentimento nello spettatore
Non è più giovane Hannah e proprio ora suo marito viene arrestato per qualcosa di spaventoso, così indicibile che il film non lo dirà ma ne capiremo la gravità da come Hannah è gradualmente esclusa dalla vita sociale. Non le rinnovano un abbonamento in palestra, non è ammessa dai figli alla festa del nipotino e i vicini di casa le bussano di notte gridandole di vergognarsi. In tutto il film Hannah cercherà di tirare avanti, di farsi una ragione di quest’evento, di elaborare il dramma. Senza mostrarlo.
Purtroppo come nella grande maggioranza di film sull’elaborazione silenziosa anche qui servirebbe tutta un’altra capacità di immaginare, di girare, di comporre le inquadrature e di mettere in scena il mondo dei personaggi per far sì che da esso (e non dalle azioni o dagli eventi) emerga quella terribile insofferenza nascosta. Insomma la capacità non solo di dirigere un’attrice ma anche di creare un ambiente che trasudi quel sentimento così nascosto.
Addirittura anche quello che sulla carta dovrebbe essere il punto di forza del film, cioè lavorare tantissimo sul corpo e sul volto di una grande attrice, Charlotte Rampling, si rivela un’arma molto più spuntata del previsto. Impeccabile ma non certo devastante, la protagonista assoluta del film non riesce nemmeno lei a fargli compiere il salto di qualità. Dunque alla fine non sarà tanto la noia che regna dal primo minuto e che non abbandona mai il film a far meritare ad Hannah il minimo del gradimento, quanto la superba arroganza insita nella pretesa di poter fare un film dalle premesse così difficili con il minimo dei dialoghi e nemmeno la capacità di generare immagini significative a compensare.