Venezia 74 - Foxtrot, la recensione

Una famiglia che riceve la notizia della morte del figlio e cosa è accaduto a questo figlio in guerra, Foxtrot incrocia i piani con una puerilità disarmante

Critico e giornalista cinematografico


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Il prodotto principale di Foxtrot è il fastidio. È ciò che il film di Samuel Maoz (quello che vinse il Leone d’Oro con Lebanon) scatena prima di tutto e alla fine, è il risultato maggiore dei suoi esiti. Il fastidio inizia a scatenarsi alla fine del primo atto, quando dopo aver visto una famiglia a cui viene annunciata la morte del figlio maschio, in quel momento sotto le armi, arriva il primo grande twist che di colpo cambia genere al film, ed è fastidio per una messa in scena che si fa grottesca e allegorica senza una vera ragione, senza un motivo. È poi fastidio per i suoi personaggi che come bambini pretendono di essere compresi dal pubblico nel loro dolore inespresso che dovrebbe passare per piccole continue ossessioni.

Poi il fastidio monta, perché diventa anche fastidio per il fatto che tutto sembra rimandare ad altro, anche le scene nel posto di blocco militare che occupano la seconda parte del film, quella dedicato alla rappresentazione della guerra come follia, così dense di simboli e così grottesche, determinate ad alludere senza saperlo fare davvero, dando l’impressione di essere rimasti fuori dal gioco del film. Infine, quando il film torna all’interno familiare dell’inizio, con un doppio twist, il fastidio diventa insofferenza per la sofferenza altrui, nascosta dai personaggi e poi svelata di colpo con una teatralità che a questo punto diventa insostenibile.

Foxtrot è in buona sostanza un film puerile e infantile, che come uno studente al primo anno della scuola di cinema crede che un silenzio sia espressivo di suo, che un personaggio che nasconde e trattiene un dolore funzioni da solo. Lo mostra bene la metafora con il ballo foxtrot che dà il titolo al film, un ballo i cui passi che tornano sempre al punto in cui sono partiti, così convenzionale e scontata ma portata in palmo di mano dal film. In compenso la scena finale in cui questa metafora è spiegata è ancora peggio.

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