Venezia 74 - First Reformed, la recensione

Duro, meditabondo, spirituale e carnale, First Reformed è il ritorno del miglior Paul Schrader di sempre

Critico e giornalista cinematografico


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Quel mostro che si muove, urla, scalpita e soffre, roso dai dubbi più grossi che possano esistere, che risiede dentro Paul Schrader è tornato.
First Reformed è il suo film più potente e viscerale da anni a questa parte, un grido contraddittorio e per questo autentico, in cui c’è tanta rabbia verso la società quanta ce n’è verso se stesso (incredibile). Tutto nel più quieto e calmo dei toni. Il deserto, il dolore e la fatica sono dentro, non fuori.
Fuori dominano le luci tenui e fioche, dentro scorre l’alcol assieme all’idraulico liquido, la punizione somma. Fuori padre Toller, parroco di una chiesetta storica in un paesino di provincia, recentemente restaurata è un uomo di Chiesa controllato. Dentro ribolle, scrive un diario per quietarsi, è pieno di dubbi e non riesce a pregare, un dramma che in pochi possono capire: “Quanto è facile parlare di preghiera per chi non ha mai pregato davvero” scrive sul suo diario.

Intorno a lui una storia intrecciata che rimanda subito al cinema del nordeuropa degli anni ‘50 e ‘60, quello della comunità piena di problemi di Ordet, dell’austerità della vita dei suoi preti (i luoghi di First Reformed sono così rarefatti che pare lì non si possa far altro che meditare sul proprio posto nell’universo), ma ci sono anche i terribili dubbi del parroco di Luci D’Inverno di Bergman (la chiesa sembra la stessa di quel film).
First Reformed è insomma un film controllatissimo e meditabondo che già nella prima parte, con una misura e un rigore non sempre praticati da Schrader, regala alcune conversazioni lunghe e dense. Ne è un ottimo esempio quella in cui padre Toller si confronta con Michael, attivista ecologista che non vuole avere il figlio che la sua ragazza ha in grembo, per non consegnarlo ad un mondo che sta morendo. Padre Toller si sforza di contrastare il suo pessimismo ma a fatica. Sarà Michael al contrario mettere un seme dentro di lui, un sasso che genera una valanga quando il prete lo troverà morto suicida.

Parte così la seconda parte di First Reformed in cui accumula tensione e desiderio, svela il massacro autolesionista del suo protagonista fatto di alcol e idraulico liquido, una corsa verso il basso che lo distrugge, perché il film sembra odiarlo come lui si odia, odia i suoi dubbi, il suo essere così mortale, indeciso, tentennante e incapace di mettere a tacere i suoi desideri carnali. Inseguito da una donna che non gli interessa ma con cui si comporta bene ne desidera invece una sposata. C’è una strana dolcezza nella prima parte del film, indotta dalle luci controllate e tenui, una che il film perde a mano a mano che padre Toller perde freni, appresso alla causa ecologista che lo porterà a decisioni estreme (per il suo ruolo, per la sua religione e per il suo carattere).

La verità è che questo cineasta tempestato di desiderio è il più serio di tutti con la religione, l’unico capace di manifestare nei suoi film quanto prenda seriamente la materia, l’unico funestato realmente dai medesimi contrasti che la religione proietta in astratto. L’unico che mostra un abisso che è il primo a temere, sentendo su di sé le tensioni che gli altri leggono nel Vangelo. E quando i suoi film lo manifestano, con la forza delle immagini che lui sa partorire ci si para davanti il cinema nella sua incarnazione più pura (attesissima, verso la fine arriverà una manifestazione del martirio fenomenale, fatta di sangue e filo spinato, finalmente la sintesi tra carne, spirito, cultura religiosa e dolori umani). Così folle da andare contro ogni corrente, Schrader negli anni di paura del terrorismo mette in scena gli eventi più provocatori con un prete cristiano, non per provocare, ma per manifestare rabbia. Non gli interessa shockare nessuno, gli interessa manifestare i più atroci dubbi interiori.

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