Venezia 74 - Il Contagio, la recensione

In un condominio si intrecciano storie di povertà ed ascesa sociale, amore e tradimenti, ma Il Contagio sembra pensare solo a sè, alla propria solennità

Critico e giornalista cinematografico


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Ad un certo punto la voce fuoricampo di Vincenzo Salemme, scrittore di libri legato al palestrato Vinicio Marchioni da una storia d’amore omosessuale segreta, descrivendo il rito della cocaina che i due consumano prima dell’amplesso, con le sue parole auliche parla di una “strana solennità” della droga.

“Strana solennità” è anche la maniera migliore per descrivere l’atteggiamento di Il Contagio, secondo film di Botrugno e Coluccini dopo Et In Terra Pax, di nuovo contaminato da una gravitas calcata ed enfatizzata. Storie piccole e umane, di periferia e di scalate sociali, di indigenza e di miseria, ma riprese al ralenti, inquadrate per enfatizzarne i toni religiosi che il film precedente metteva in chiaro già dal titolo.

Non sappiamo se i due registi e sceneggiatori abbiano una formazione religiosa né se siano religiosi, di certo le loro due opere hanno entrambe un’impronta narrativa religiosa, si muovono cioè lungo una “strana solennità” che richiama quella dei racconti biblici: piccoli, particolari eppure devastanti, universali, destinati a cambiare il mondo. Ma di certo non cambieranno il mondo gli eventi di Il Contagio e, ahimè, nemmeno il cinema. Nonostante i suoi protagonisti siano uccisi da piccoli criminali tramite lapidazione, attaccati ad un albero come un martiri cristiani, nonostante la musica che ne sottolinea la passione e mancata redenzione, nonostante lo stile del racconto cerchi di far discendere su di essi la Grazia.

Grazia reale non c’è però in questa girandola di eventi che cerca in ogni anfratto il dramma e la tragedia, che sembra scegliere i momenti dalle vite di ogni personaggio in cui più si concentra la disperazione. Un pugno di appartamenti abitati da coppie, single, madri e figli e amanti, tutti in cerca di una salvezza dalla loro situazione anche se non è ben chiaro come mai. Certi hanno bisogno di soldi, altri sono inquieti, altri ancora sembrano non voler mantenere una vita regolare, ma in questo contagio (preso dall’omonimo libro di Walter Siti) che sembra portare tutti alla morte o in galera non c’è coerenza.

Dovrebbe essere forse lo stile di messa in scena a darne una, dovrebbe essere lo sguardo di chi dirige, la maniera in cui ci suggerisce un rapporto tra eventi e personaggi a fornirlo. Eppure non è mai così. La passione per lo stile sacro, per la “martirizzazione” di ogni personaggio appesantisce molto Il Contagio, gli conferisce uno sguardo paternalista fuori luogo, assieme ad un’aura che la scrittura non riesce a sostenere e che la messa in scena sembra tradire, cercando di quando in quando vie di fuga nelle birrette con gli amici, in due tiri ad un pallone nel cortile del condominio come in una canzone di Paolo Conte, insomma nella serenità come esiste nelle pubblicità.

Così alla fine, né carne né pesce, né parabola pasoliniana (il grande nume che faceva da faro al loro film precedente) né dramma moderno, né storia quotidiana né gigantesca allegoria di una società, Il Contagio è solo una serie di fattacci di para-cronaca messi in fila, enfatizzati in modi controproducenti da una voce fuoricampo pomposa e da ralenti pretenziosi.

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