Venezia 74 - Il Contagio, la recensione
In un condominio si intrecciano storie di povertà ed ascesa sociale, amore e tradimenti, ma Il Contagio sembra pensare solo a sè, alla propria solennità
“Strana solennità” è anche la maniera migliore per descrivere l’atteggiamento di Il Contagio, secondo film di Botrugno e Coluccini dopo Et In Terra Pax, di nuovo contaminato da una gravitas calcata ed enfatizzata. Storie piccole e umane, di periferia e di scalate sociali, di indigenza e di miseria, ma riprese al ralenti, inquadrate per enfatizzarne i toni religiosi che il film precedente metteva in chiaro già dal titolo.
Grazia reale non c’è però in questa girandola di eventi che cerca in ogni anfratto il dramma e la tragedia, che sembra scegliere i momenti dalle vite di ogni personaggio in cui più si concentra la disperazione. Un pugno di appartamenti abitati da coppie, single, madri e figli e amanti, tutti in cerca di una salvezza dalla loro situazione anche se non è ben chiaro come mai. Certi hanno bisogno di soldi, altri sono inquieti, altri ancora sembrano non voler mantenere una vita regolare, ma in questo contagio (preso dall’omonimo libro di Walter Siti) che sembra portare tutti alla morte o in galera non c’è coerenza.
Così alla fine, né carne né pesce, né parabola pasoliniana (il grande nume che faceva da faro al loro film precedente) né dramma moderno, né storia quotidiana né gigantesca allegoria di una società, Il Contagio è solo una serie di fattacci di para-cronaca messi in fila, enfatizzati in modi controproducenti da una voce fuoricampo pomposa e da ralenti pretenziosi.