Venezia 74 - Ammore e Malavita, la recensione

Divertente sceneggiata consapevole, piena di musica, Ammore e Malavita perde tutto il suo interesse quando diventa un poliziesco

Critico e giornalista cinematografico


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Sembra che finalmente i fratelli Manetti abbiano trovato la chiave migliore per sfruttare la tenacia con la quale portano nel cinema di oggi quello di ieri. L’attacco di Ammore e Malavita è formidabile e quasi shakespeariano. Un funerale, un boss morto che canta nella bara rivelando di non essere chi tutti sostengono che sia, seguito dall’annuncio di una storia di doppie identità, agnizioni e svelamenti che suona sia corretta che goduriosa. Ammore e Malavita non è un musical nel senso stretto, è una sceneggiata napoletana con le coreografie moderniste di Luca Tommassini che recuperano il gusto kitsch adatto al tono della storia e alla recitazione. In questo è davvero un gioiello.

C’è così tanta calzante ironia, così tante idee divertenti almeno in tutta la prima parte del film (quella più gustosamente sentimentale e smielata), una così buona imitazione dell’espressionismo da sceneggiata, che è difficile non farsene travolgere, anche passando sopra al fatto che ci sono nel cast attori non napoletani che recitano in napoletano (Claudia Gerini). Semmai è quando nella seconda parte la vocazione d’azione anni ‘70 dei Manetti prende il sopravvento che sorgono i primi dubbi.

Ammore e Malavita è un’ottima sceneggiata postmoderna e un pessimo poliziesco postmoderno, non solo non ha un’azione degna di questo nome (come sempre nei film dei Manetti) ma quando vi ricorre stona anche molto con i colori e le dinamiche imbastite all’inizio. Manca quindi di coerenza e forse anche per questo (ma soprattutto per come vengono sbrogliati gli intrecci) si arriva spompatissimi alla terza parte, lunga larga e noiosa (eppure il film ha un minutaggio contenuto). Per non dire al finale pieno di doppie sorprese!

Forse allora non era il caso, con il senno di poi, di iniziare il film con un segmento musicale che prende in giro la solita rappresentazione di Napoli, tutta malavita e crimine in stile Gomorra (è girata alle vele di Scampia con dei turisti che rievocano proprio la serie e sono contenti di essere derubati perché è la “Gomorra experience”). Non era il caso perché Ammore e Malavita, con molto gusto, fa la stessa cosa: utilizza uno stereotipo di Napoli (la musica, i sentimenti smodati, i personaggi eccessivi e l’ingerenza del crimine) per fare un film d’intrattenimento che tuttavia non viene bene come Gomorra, sia film che serie. E questo anche perché non ne ha la coerenza nel ritrarre un mondo nero dall’inizio alla fine o gioioso e parodistico dall’inizio alla fine.

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