Venezia 74 - Ammore e Malavita, la recensione
Divertente sceneggiata consapevole, piena di musica, Ammore e Malavita perde tutto il suo interesse quando diventa un poliziesco
C’è così tanta calzante ironia, così tante idee divertenti almeno in tutta la prima parte del film (quella più gustosamente sentimentale e smielata), una così buona imitazione dell’espressionismo da sceneggiata, che è difficile non farsene travolgere, anche passando sopra al fatto che ci sono nel cast attori non napoletani che recitano in napoletano (Claudia Gerini). Semmai è quando nella seconda parte la vocazione d’azione anni ‘70 dei Manetti prende il sopravvento che sorgono i primi dubbi.
Forse allora non era il caso, con il senno di poi, di iniziare il film con un segmento musicale che prende in giro la solita rappresentazione di Napoli, tutta malavita e crimine in stile Gomorra (è girata alle vele di Scampia con dei turisti che rievocano proprio la serie e sono contenti di essere derubati perché è la “Gomorra experience”). Non era il caso perché Ammore e Malavita, con molto gusto, fa la stessa cosa: utilizza uno stereotipo di Napoli (la musica, i sentimenti smodati, i personaggi eccessivi e l’ingerenza del crimine) per fare un film d’intrattenimento che tuttavia non viene bene come Gomorra, sia film che serie. E questo anche perché non ne ha la coerenza nel ritrarre un mondo nero dall’inizio alla fine o gioioso e parodistico dall’inizio alla fine.