Venezia 73 - The Woman Who Left, la recensione
Meticoloso e pensato per parlare con un pugno di inquadrature di mostruosa composizione, The Women Who Left è un film di impressionante realismo
Una donna esce di prigione dopo anni di reclusione perché è stata acclarata la sua innocenza, torna nel suo paesino, là dove tutto è accaduto e fa una doppia vita, di giorno e di notte. L’idea è indagare sul piccolo boss locale, quello che la incastrò, e farlo fuori. In questa doppia vita incontra varia umanità in una specie di baraccopoli ai confini di tutto, un gobbo che vende uova la notte, un travestito che si prostituisce, alcuni negozianti, una famiglia assillata da una cicciona.
Non è solo il lavoro sulla profondità di campo (fantastico) o sulla composizione (gli attori non girano liberamente, sono piazzati per bilanciare tutta la scena) ad impressionare ma quella maniera misteriosa che ha ogni tavola di includere lo spettatore, di avvicinarlo e avvincerlo anche nei momenti in cui la trama non va da nessuna parte. Ogni scena di Lav Diaz è un piccolo film a sé di accattivante capacità di linguaggio. Se nel cinema duro fondato da Scorsese atti come una vendetta armata da parte di una persona che non è un criminale sono degli inferni di terrore, in quello di Lav Diaz paradossalmente non è l’apice di nulla. Non saranno l’ingresso di una pistola, una piccola rissa, un confronto verbale o l’incontro con il nemico a colpire. Sono semmai le lunghe notti a farlo!
E davvero è incredibile quanto una messa in scena così artificiosa, calcolata, ben composta e quasi matematica nella sua perfezione stilistica, riesca a giungere ad un’impressione di realismo e presenza dello spettatore nella scena. L’esperienza è così coinvolgente che qualsiasi durata non è più un problema.