Venezia 73 - The Journey, la recensione

Si affida al talento istrionico di Timothy Spall e Colm Meaney il road movie politico The Journey, che romanza lo storico accordo tra i leader irlandesi Ian Paisley e Martin McGuinness durante un viaggio in macchina verso Edimburgo

Condividi
Era il 2013 quando Locke, firmato dal britannico Steven Knight, approdò al Festival di Venezia, raccontando il viaggio interiore di un uomo attraverso l'immediata metafora di un tragitto Birmingham-Londra, narrato in tempo reale attraverso la maestosa performance di Tom Hardy. Quest'anno, in laguna approda - fuori concorso - un'opera che, sebbene diametralmente opposta nelle premesse, ha con il film di Knight più di un punto in comune: trattasi di The Journey di Nick Hamm, già autore di The Hole e Killing Bono.

Stavolta, il road movie più avvincente del festival - lontano anni luce dalla statica inconsistenza del nostrano Questi giorni - vede protagonisti due personaggi desunti dal reale, di peso specifico molto superiore rispetto al travagliato capo cantiere Locke: nel claustrofobico abitacolo, guidati verso Edimburgo da un giovanissimo autista (Freddie Highmore) con qualche segreto di troppo, s'incontrano e si scontrano Martin McGuinness (Colm Meaney), fervente repubblicano indipendentista con alle spalle un passato oscuro nelle file dell'IRA, e Ian Paisley (Timothy Spall), burbero e carismatico leader del Partito Unionista Democratico, conservatore e anticattolico.

Affidato alle performance a tratti macchiettistiche, ma altamente godibili di due giganti del cinema come Meaney e Spall, il film di Knight immagina il lungo dialogo tra i due nemici, costretti a condividere uno spazio angusto che diviene bizzarro albergo di trattative troppo a lungo rimandate. Non c'è grande pretesa di originalità formale, né tantomeno si evitano i topos più comuni del processo di avvicinamento tra personaggi inizialmente contrapposti, sotto l'occhio vigile di Tony Blair (Toby Stephens) e Harry Patterson (John Hurt).

Tuttavia, la fantasia romanzata di Knight coglie nel segno, appassionando e divertendo lo spettatore, cui fa fare capolino quanto basta nelle questioni politiche, sollevandosi furbamente dallo schierarsi con l'una o l'altra parte. Una scelta che, va detto, risulta perfettamente coerente con il messaggio di The Journey, che sottolinea con semplice efficacia il valore del compromesso, evidenziando la pericolosità della santificazione idealistica e auspicando, tra le righe, che una flessibilità come quella di Paisley e McGuinness possa non restare un unicum, trovando il coraggio di dipingerla non solo come sacrificio del credo individuale in favore del bene di un popolo, ma anche come vantaggioso accordo tra due uomini né buoni né cattivi, ma inesorabilmente segnati dalla sete di potere.

Continua a leggere su BadTaste