Venezia 73 - The Bleeder, la recensione

The Bleeder, la recensione del film sul pugile interpretato da Liev Schreiber, la vera storia di Rocky Balboa in un’epopea divisa tra fama e declino

Condividi

Chuck Wepner, il sanguinolento, “The Bayonne Bleeder”, il pugile che sfidò il campione mondiale Muhammed Ali e l’autentico ispiratore della leggenda del Rocky Balboa stalloniano.

The Bleeder, presentato fuori concorso e diretto da Philippe Falardeau, ricorda le composizioni di Black Mass, anch’esso proiettato in anteprima l’anno scorso al pubblico del Lido. Con i suoi fotogrammi ricchi di verdi bokeh, Falardeau dipinge le anime di un quartiere di Bayonne: bar angusti sul ciglio della strada, banconi illuminati da fiochi neon violetti e un omaccione interpretato da Liev Schreiber in un lungo cappotto di cuoio e due vistosi baffi che ben si sposano con il panorama funk degli anni ’70.
The Bleeder è debitore al gangster di Scott Cooper, quanto al Joy di David O. Russel. E non solo per questioni scenografico-temporali. La narrazione è affidata a Wepner stesso, tra mugolii, pensieri in divenire e rimpianti per non aver colto la fortuna al momento opportuno. Tanto che non lo si può definire un film sportivo. La disciplina della boxe non è al centro dell’indagine. E’ una tragedia di cuore e di affetti di un eterno sfavorito, un eroe di periferia destinato a sfiorare l’olimpo del pugilato, di Hollywood e rimanerne scottato, inghiottito e risputato.

Ed è nel massimo declino che scopriamo di conoscerlo già. Come raccontato dal principio, stiamo guardando un uomo le cui gesta sono già state narrate: il vero Rocky Balboa. Solo che non sapevamo della sua esistenza. E dubitiamo che il la voce narrante , Chuck stesso, dica il vero. La prima inquadratura lo immortala combattendo con Victor, l’orso bruno, il wrestling bear della pellicola firmata da Clint Eastwood La Ballata della Città senza Nome in un improvvisato ring di un club notturno.

Al racconto della caduta, in un ordine temporale inverso, circolare e scorrevole, seguono le origini del mito. La provenienza polacca e l’etica lavorativa del New Jersey hanno plasmato il combattente e Schreiber, dopo la prova più implosiva di Spotlight, si sporca di sudore e sangue conferendo al personaggio uno spettro emotivo così ampio da offrire, a quella che potrebbe apparire come una consueta iperbole di decadenza, una densità emotiva più sofferente.

Le scuse per aver mancato la fama, l’inclinazione ad essere un padre distratto e la dipendenza dalla cocaina assumono un peso differente, come se il regista non si sentisse di giudicare. Come se la sagoma di Wepner non sia mai stata uniformabile ad alcun schematismo: non quello della boxe, né del cinema ma solo a quello di un ego sproporzionato.

Ritroviamo Ron Perlman come il coach “Don King” Al Braverman, più che mai a suo agio con Schreiber, grazie ad un ruolo divertente di un promoter più incline agli schiaffi che alle confidenze di spirito. La fotografia di Nicolas Bolduc richiama l’anima pop degli anni ’70 servendosi perlopiù di riprese sghembe e tremolanti, specie durante le sbronze nei party. Talvolta la finzione si unisce al reale grazie all’inserimento di alcuni scatti d’epoca.

Pur con una messa in scena d’acciaio per quel che concerne i combattimenti sul ring, la parte più interessante di Bleeder arriva nel secondo atto dopo l’incontro con Stallone, l’avvicinamento ai meccanismi di Hollywood e le prime crisi d’identità. Probabilmente Bleeder non dice nulla di nuovo sull’argomento. L’approccio è quello del solito perdente divorato dalla sua stessa celebrità. Non siamo dalle parti dei lungometraggi innovativi, tuttavia stupisce per l’ottima costruzione di un pugile, egoista, cucito sulle abilità di un Liev Schreier perfetto, amaro e beffardo quando la sorte della leggenda impersonata.

Continua a leggere su BadTaste