Venezia 73 - The Bad Batch, la recensione
Stimolato oltremodo da un'ambientazione e un setting ideali, davanti a The Bad Batch viene eccitato ma non gode mai di un film che pare non sapersi divertire
Le idee da cui partono i suoi film continuano ad essere ottime ma il risultato sembra il frutto del lavoro di un’altra persona, una diversa da chi ha concepito il tutto. Era così in A Girl Walks Home Alone at Night, in cui una ragazza in Iran, una vampira, che gira di notte con il chador che pare il mantello di Dracula e mentre a casa è libera e ascolta rock, si trasformava in una lunga odissea in free roaming, nella quale pochissimo succede. Accade di nuovo qui in The Bad Batch, in cui un altro spunto succulento e promettente, un’altra ambientazione centrata, viene cucinata senza alcuna voglia di godere.
The Bad Batch è un perfetto interprete di quello che il cinema d’autore recentissimo (Ana Lily Amirpour è al secondo film ma già sta in concorso a Venezia) sta diventando, ovvero cinema di genere elevato su un altro piano. Come Refn e molti altri stanno dimostrando, si può dare il colpo al cerchio e quello alla botte, girando film che realmente affrontano il genere, ne conoscono le regole lo sanno addomesticare, ma lo stesso farlo con soluzioni e soprattutto intenzioni che sono autoriali, battendo cioè una strada formale che non replica strutture e sguardi canonici (che poi è stato da sempre il segreto del cinema di genere) ma ogni volta adotta soluzioni personali e uniche, per sugerrire qualcosa di diverso da ciò che le immagini narrano.
Con tutte le carte in regola invece The Bad Batch annaspa e non sa che storia raccontare, non sa come far godere il pubblico e si limita a stimolarlo in un eterna preparazione al coito che non verrà.