Venezia 73 - Spira Mirabilis, la recensione
Pieno di ottime intenzioni, per quanto ingenuo negli assunti, Spira Mirabilis non è un brutto film ma un cocente fallimento troppo lungo e insulso
Girare un documentario antinarrativo è impresa difficilissima, parente della contemplazione, vicina all’osservazione naturale, necessariamente alimentata da un comparto visivo e da un montaggio in grado di lavorare nella testa dello spettatore. Lo sa bene Gianfranco Rosi, lo sa ancora meglio Minervini che compie un doppio salto mortale e con il solo montaggio rende narrativo ciò che non lo è. Spira Mirabilis invece non ci riesce. Mai.
D’Anolfi e Parenti montano per assonanza visiva (spesso forme simili si avvicendano da uno stacco all’altro), sovrimpongono due immagini per mutare l’aspetto e deformare il punto di vista, inquadrano attraverso una finestra oppure cercano i rumori fortissimi e paradossalmente asettici per fare poesia con gli elementi meno usuali. Spesso indovinano immagini affascinanti, mai riescono a metterle in relazione per creare senso.
Spira Mirabilis in questo senso non è un brutto film ma un fallimento. L’idea che lo guida è ammirevole (per quanto molto elementare e appoggiata ai grandi clichè degli elementi della Terra), i soggetti scelti anche e molti dei processi messi in scena (specie la generazione del suono e il micromondo delle meduse) sono ripresi con un ottimismo e una fascinazione per le capacità umane che sarebbero degni in un film migliore. Le singole scene calamitano insomma ma il loro lunghissimo avvicendarsi (120 minuti), cioè il flusso di immagini di uomini al lavoro o uomini che protestano, è privo di una significativa costruzione interna.