Venezia 73 - Rocco, la recensione

Agiografia fin troppo celebrativa di un uomo dichiaratamente tormentato, sbarca a Venezia il documentario su Rocco Siffredi di Thierry Demaizière e Alban Teurlai

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Chi ricorda lo Shame di Steve McQueen, coraggiosamente presentato al Festival di Venezia del 2011, non potrà non notare parecchi punti di contatto con Rocco, celebrazione malinconica con ambizioni introspettive del re del porno Rocco Siffredi, firmata da Thierry Demaizière e Alban Teurlai e approdata oggi al Lido come evento speciale della sezione Giornate degli Autori.

Sin dalle prime inquadrature - il pene di Siffredi sotto la doccia, drammaticamente illuminato e coniugato a una voice over che già presenta la "maledizione" che il protagonista si porta dietro - l'intento di Demaizière e Teurlai è chiarissimo: celebrare la fragilità umana di un divo riconosciuto, mostrando al mondo la difficoltà di conciliare l'anelito a una tranquilla vita familiare con un irrefrenabile impulso sessuale.

Operazione affascinante, la cui validità è però smorzata dal fatto che lo stesso Siffredi, negli ultimi anni, non abbia mancato di sottolineare il dramma umano che ha segnato la sua vita, mostrando il lato fragile che ogni appassionato brama, prima o poi, di vedere nei propri eroi d'acciaio. Il ritratto che esce dall'opera di Demaizière e Teurlai si adagia, sfortunatamente, sul soffice terreno dell'agiografia, in una celebrazione dell'uomo Siffredi che, alla lunga, fa perdere quota all'intera indagine psicologica.

Risulta, inoltre, difficile sospendere l'incredulità di fronte ai battibecchi tra il divo Rocco e il cugino Gabriele, regista la cui carriera risulta tragicamente legata a quella dell'attore. Difficoltà che si ripercuote, ahinoi, anche nei momenti di più sincera - auspichiamo - commozione da parte di Siffredi, laddove racconta dettagli dolorosi e talvolta ripugnanti della propria vita familiare. Da questo punto di vista, Rocco risulta un'opera più compiuta come racconto di fiction che non come indagine documentaristica, forte di uno stile registico esteticamente impeccabile che spoglia, in un processo inverso rispetto all'economia profumata di sensualità di La Grande Scommessa, la pornografia di qualsiasi vena conturbante.

Il sesso mostrato da Demaizière e Teurlai è asettico e, a tratti, persino noioso, mostrato nella sua faccia meno scintillante e imbrigliato nelle maglie di una routine lavorativa qualsiasi. Il che, va detto, aumenta il distacco tra il pubblico e la dipendenza sessuale drammaticamente confessata da Siffredi, dipendenza che perde il proprio potenziale di universalità per cedere il passo a una ricerca estetica e poetica atarassica ma, tutto sommato, piuttosto efficace.

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