Venezia 73 - Rocco, la recensione
Agiografia fin troppo celebrativa di un uomo dichiaratamente tormentato, sbarca a Venezia il documentario su Rocco Siffredi di Thierry Demaizière e Alban Teurlai
Sin dalle prime inquadrature - il pene di Siffredi sotto la doccia, drammaticamente illuminato e coniugato a una voice over che già presenta la "maledizione" che il protagonista si porta dietro - l'intento di Demaizière e Teurlai è chiarissimo: celebrare la fragilità umana di un divo riconosciuto, mostrando al mondo la difficoltà di conciliare l'anelito a una tranquilla vita familiare con un irrefrenabile impulso sessuale.
Risulta, inoltre, difficile sospendere l'incredulità di fronte ai battibecchi tra il divo Rocco e il cugino Gabriele, regista la cui carriera risulta tragicamente legata a quella dell'attore. Difficoltà che si ripercuote, ahinoi, anche nei momenti di più sincera - auspichiamo - commozione da parte di Siffredi, laddove racconta dettagli dolorosi e talvolta ripugnanti della propria vita familiare. Da questo punto di vista, Rocco risulta un'opera più compiuta come racconto di fiction che non come indagine documentaristica, forte di uno stile registico esteticamente impeccabile che spoglia, in un processo inverso rispetto all'economia profumata di sensualità di La Grande Scommessa, la pornografia di qualsiasi vena conturbante.