Venezia 73 - Robinù, la recensione

Impeccabile tecnicamente e soprattutto originale e interessante contenutisticamente, Robinù non ha nulla che lo qualifichi per il grande schermo

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Non ci sono dubbi sull'interesse che la storia raccontata da Robinù è in grado di scatenare. Non ce ne sono nemmeno sulle potenzialità cinematografiche di un documentario che metta in scena per la prima volta, e faccia parlare, i bambini boss della Camorra, i protagonisti di una breve e recente stagione di guerra e stragi. Da quando il cinema italiano ha infatti cominciato a raccontare la mafia da vicino, con altro piglio rispetto al passato, includendola dentro ai racconti sia di finzione che non, andando nei luoghi veri ad ambientare le sue storie, appoggiandosi a volti reali, abbiamo scoperto quanto il mondo dei film sia prossimo a quello del crimine, quanto quest’ultimo si abbeveri del primo e lo conosca. Di tutto ciò però non c'è traccia in Robinù, che non sbaglia una virgola quando si tratta di riportare informazioni e raccontare cosa sia successo o nel porre le domande migliori, ma lo stesso non può essere promosso al grande schermo.

Ciò di cui infatti si può legittimamente sentire la mancanza vedendo questo documentario girato da Michele Santoro (e dal suo entourage) è quella capacità che ha il cinema di raccontare qualcosa e contemporaneamente dire altro. Formalmete Robinù è ineccepibile ma anche poverissimo. Non ha un’idea chiara su come guardare i suoi soggetti, anzi spesso adotta un occhio spietato nei confronti dei piccoli boss, uno che sembra figlio della cronaca televisiva più che delle scelte acute del cinema, è bieco nel metterli in difficoltà e non sa mai prendere quelle decisioni formali (montaggio, inquadratura, tempi, audio) utili a trasfigurare ciò che vediamo in altro. In poche parole in questo documentario il totale equivale alla somma delle singole scene e non è mai ad esse superiore.

Soprattutto davvero non si comprende l'esigenza di far circolare nei cinema un simile prodotto eminentemente televisivo che solo l'uso di determinate lenti, di una determinata color correction e in buona sostanza di un look che imita il cinema (senza inventare nulla per sè) eleva allo status di film-documentario.
Proprio la bontà dei contenuti di Robinù la sua capacità di ottenere voci, volti e luoghi che probabilmente sarebbero difficili da raggiungere da parte di qualsiasi altra troupe dovrebbe costituire un onere, dovrebbe essere un peso che per essere sostenuto (al cinema) necessita di altre idee e un'altra testa. Pensare di poter irrompere nel linguaggio cinematografico senza padroneggiarlo realmente e soprattutto senza avere idea di come inserirsi in un arcipelago (quello del resto dei film con cui ci si deve relazionare) o ancora peggio pensando di poter essere un'isola solitaria (ma senza ovviamente avere la forza espressiva o le idee di linguaggio necessarie) è abbastanza tenero se non risibile.

Continua a leggere su BadTaste