La commedia tendiamo spesso a identificarla con i suoi attori e il loro carisma o la vis comica. A un livello più raffinato poi con la scrittura di situazioni, intrecci o anche solo singole gag. Raramente invece la concepiamo come il frutto di una grande messa in scena, cioè della capacità di gestire il ritmo interno di ogni momento e il ritmo del montaggio, cioè trovare il ridicolo nella “maniera in cui le cose avvengono”, più che in chi le fa o in cosa avvenga.
Piuma è così invece che lavora sulla risata, ed è un modo così adatto al mezzo filmico da apparire fluido e coinvolgente da subito. Con la sceneggiatura il film delinea i personaggi e l’intreccio, con gli attori lavora per raggiungere credibilità ma è solo con i ritmi che fa ridere. Non ci sono battute memorabili da trascrivere o gag fisiche esilaranti, solo le parole giuste nei momenti giusti.
Al centro della storia sono due ragazzi appena 18enni che decidono di tenere il bambino di cui lei è incinta. Nessuno dei genitori è daccordo e loro stessi vacillano ma alla fine tirano dritti. Seguiamo i nove mesi prima del parto e subito capiamo perché tutti siano contrari: i due sono abbastanza scemi, specie lui. E non è che le loro famiglie siano migliori. Problemi grossissimi, assieme a piccolissimi tutti sullo stesso piano, Piuma accumula disastri su disastri con un ritmo invidiabile.
Roan Johnson aveva dimostrato (in parte) di padroneggiare il ritmo già in
I Primi della Lista, mentre ci aveva un po’ rinunciato in
Fino a Qui Tutto Bene (film in cui puntava su altro), ora torna ad un lavoro meticoloso, tanto più evidente quanto più ci sono molti personaggi in scena. Capita raramente al cinema di ridere così tanto, di gusto, a lungo e con i tempi giusti (senza che i momenti comici si accavallino ma lasciando che fluiscano uno dopo l’altro) in un film che, nella miglior tradizione della commedia nostrana recente (scuola
Bruni/
Virzì), racconta una storia che potrebbe essere una tragedia, guardando gli eventi in un modo che trova sempre il ridicolo e il grottesco che rendono ogni personaggio in fondo amabile, pur nella sua mostruosità. Ma se i due autori livornesi di
Ovosodo e
Tutta La Vita Davanti hanno una capacità rara di amare tutto e tutti senza essere buonisti e un rigore estremo nel rifiutare (almeno nei loro film migliori) la ruffianeria,
Roan Johnson (che invece è pisano) è più grossolano.
La parte meno sincera e diretta, quella più velleitaria e meno riuscita del film infatti è l’ambito “serio”, le sue piccole deviazioni alla ricerca del poetico con allegorie sempliciotte e per l’appunto ruffiane. Proprio perché è così riuscita l’impresa di avvicinarsi e farci partecipare a personaggi terribili (c’è un esilarante padre che non tollera il figlio di Sergio Pierattini), risulta ancora più fallita la volontà di elevarsi e ritagliare nel film piccoli momenti sognanti con paperelle nel mare o immaginarie nuotate sopra la città. Soprattutto suona superflua in un film che tutto quel che di più serio vuole dire (non molto di certo, ma nemmeno poco) riesce a dirlo con le parti comiche.