Venezia 73 - Paradise, la recensione

Tocco leggerissimo quello di Paradise, cinema lieve che si insinua nella testa, racconta con grazie le idee più elevate e sa come guardare quelle più turpi

Critico e giornalista cinematografico


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Paradise non è quel che hanno fatto i nazisti, come spesso racconta il cinema dell’Olocausto, ma quello che sognavano, assieme agli altri uomini e donne del loro tempo. Un’ebrea, un ufficiale SS e un commissario francese che collabora con la Germania hanno un’idea diversa del Paradiso, cioè un’idea diversa di cosa possa esserci in un domani migliore. Ognuno è convinto, ognuno è messo alla prova dagli eventi che vive, l’intreccio classico del cinema cui Konchalovsky riserva un trattamento d’altri tempi, compassato e misurato.

La parte più fastidiosa di Paradise è infatti come ostenti il suo statuto di cinema vintage. Si presenta in bianco e nero, ha un quadro in 4:3 e in certi momenti trova alcune delle inquadrature contemporanee più somiglianti per fotografia e composizione ad un film degli anni ‘30. Sa di essere bello di una bellezza passata, ricalcato (e bene) su modelli aurei, e lo sbandiera.

Sono difetti veniali però, perché Konchalovky centra uno dei film migliori della sua carriera, un racconto quasi perfetto, che svicola ogni ostentazione e ogni ruffianeria pur muovendosi sul terreno più ruffiano che ci sia: l’Olocausto. La sua storia di ufficiali nazisti innamorati di prigioniere ebree è vecchia come il cucco ma non importa, perché a Konchalovsky interessa il crollo dei sogni, interessa non tanto cosa scelgono di fare questi personaggi (che poi è quel che sarebbe interessato a qualsiasi altro regista al suo posto) ma cosa sognano, a cosa aspirano, e come il Paradiso a cui tendono li stia ingannando. Lui è innamorato dell’idea di ideale, non dell’ideale in sé, ama anche il nazista e la sua illusione. E in questo dettaglio sta una forza etica e morale superiore.

Con una sovrapresenza di “cinema” nella storia incarnato in proiettori, ricordi e immagini su pellicola (vediamo anche i protagonisti confessarsi in camera come in un interrogatorio, in immagini la cui pellicola appositamente salta in certi punti o stacca in maniera appositamente brutale) e una capacità che impressiona di inserire piccoli momenti di genere in un affresco più grande, senza che il loro inserto stoni o suoni fuori luogo. Konchalovsky ha la mano delicata, fa innamorare i protagonisti in un flashback antecedente alla guerra, su una terrazza in Italia e sembra quasi di riuscire a farci guardare l’Italia con gli occhi di uno straniero, attraverso la mitologia del bengodi, del grande servizio e della vita molle.

Nell’inferno che è l’Olocausto (e a Konchalovsky non servono le consuete iperboli, basta una scena sola di sopraffazione per dipingere una quotidianità terrificante) l’ufficiale sogna un Paradiso ariano, in cui non esistano più ebrei, trova ridicola e puerile l’idea della superiorità tedesca ma è molto convinto della nocività ebrea (e già questa è una discriminazione e una complessità che raramente si vedono); la prigioniera sogna di liberarsi, magari proprio grazie all’ufficiale; un povero collaborazionista sogna una prestazione erotica come favore di scambio. Ma il racconto che li prende è superiore alle loro piccole vite, che poi è la ricetta ideale per dare ai cambi d’opinione dell’ultimo momento un senso e un valore: costruendoli.
Certo è vero che Paradise alla fine cede ad un po’ di ruffianeria e va in deroga a quella che sembrava una regola autoimposta di non calcare mai la mano, addirittura svela un twist metafisico. Ma, di nuovo, di fronte ad un racconto così perfetto, partecipato e intellettuale nel senso meno autoreferenziale possibile, sono dettagli.

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