Venezia 73 - Les Beaux Jours d'Aranjuez, la recensione

Con il solito fantastico 3D ma anche un'incredibile povertà d'idee di messa in scena, Les Beaux Jours d'Aranjuez è il peggior Wenders in azione

Critico e giornalista cinematografico


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Se Les Beaux Jours d’Aranjuez sembra un ritorno al passato per Wenders è perché è proprio così.

Peter Handke è un vecchio amico di Wim Wenders, i due hanno collaborato in una serie di film il più famoso e celebrato dei quali è Il Cielo Sopra Berlino. Ora Wenders mette in scena un suo testo teatrale in un film in 3D. Certo questo non è motivo sufficiente per realizzare un film così fuori dal tempo e fieramente lontano dal pubblico, non è ragione sufficiente per mettere sul piatto un’impietosa sequenza di dialoghi senza avere la capacità narrativa (e qui parliamo proprio del lavoro di regista) di affascinare lo spettatore lavorando di messa in scena. E anche il consueto fantastico 3D che il regista realizza con Josephine Derobe (il migliore in assoluto che il cinema abbia conosciuto) ammalia ma non basta. Non a caso la parte migliore di tutta l’opera è la serie di immagini di Parigi deserta in 3D, con in sottofondo Perfect Day di Lou Reed, che apre la storia.

Di drammi a due, tutti dialoghi e ambientazione unica, ne abbiamo visti, e tendono ad essere film più che appassionanti. Les Beaux Jours d’Aranjuez non è questo. Vincolati o quasi a una terrazza, immobili sulle loro sedie, i due attori non animano mai le parole e i dialoghi che pronunciano. Imboccati con una lingua già di suo molto distante da quella parlata, ma ancora di più confinati in personaggi che sembrano pensati per appiattire la storia su uno standard intellettuale privo di mordente vero (ma pieno di sé), i personaggi sono quanto di meno interessante si possa immaginare. Diventa così impossibile seguire con viva partecipazione le loro confessioni sull’amore, il sesso e la visione del passato in cui un punto di vista maschile si scontra con quello femminile.

Ancora più inspiegabile e irritante è la comparsa di Nick Cave che canta una canzone (l’idea sarebbe che esiste uno scrittore che sta scrivendo questo dialogo, e gli attori sono la personificazione di quel che batte a macchina, come anche il cantante), secondo quella tipica tendenza di certo cinema di Wenders a mettere in scena il proprio circolo, i propri amici, il proprio mondo ma non inteso come visione intellettuale dei rapporti di forza tra esseri umani, inteso come “la propria agendina del cellulare”.

Impossibile questionare la buona fede di un regista che con queste stesse carte ha fatto film grandiosi, ma anche impossibile perdonare la noia e la prosopopea cui questa volta è approdato.

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