Venezia 73 - À Jamais, la recensione
Tratto da un romanzo di Don DeLillo, À Jamais di Benoît Jacquot riflette sull'elaborazione del lutto soccombendo alla pesantezza delle proprie ambizioni intellettuali
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In una giornata illuminata dall'amore salvifico narrato da Emir Kusturica nel suo On the Milky Road, il francese Benoît Jacquot presenta l'altra faccia della passione nell'enigmatico À Jamais, trasposizione cinematografica del romanzo Body Art di Don DeLillo proposta Fuori Concorso a Venezia 73. L'adattamento di Jacquot sposta l'azione dal Maine al Portogallo, mantenendone tuttavia gli alienanti tratti fondamentali.
In questo senso, i dialoghi frammentati ripetuti dal fantasma di Rey, immaginato da Laura in un'altalena tra amore e odio, sortiscono solo in parte l'effetto alienante che costituisce lo spirito migliore dell'opera di Jaquot. Sebbene saturo di ingredienti ottimi, dalle minimali performance dei protagonisti alla già citata raffinatezza visiva che rimanda, in alcuni quadri, ai solitari scenari di Edward Hopper, À Jamais soccombe miseramente a una pretesa profondità che solo a sprazzi fa capolino tra le fessure di una piattezza a stento digeribile.
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L'intento dell'opera di Jacquot di scandagliare gli abissi della psicologia di Laura (Julia Roy) una giovane vedova incapace di accettare il suicidio del marito Rey (Mathieu Amalric), vanno a scontrarsi con una narrazione fumosa e spesso insapore, che sembra procedere senza realmente evolvere in alcun senso. La spirale di psicosi in cui Laura precipita funge da base per sequenze intrise di fascino visivo e sonoro (altamente suggestiva la colonna sonora hitchcockiana di Bruno Coulais), solcate da un'inquietudine che, tuttavia, non sempre riesce a sorreggere il peso delle ambizioni più intellettuali del film.