Venezia 73 - Jackie, la recensione
Il dolore di Jackie è tutto su Natalie Portman ma a Larrain interessano le grandi stanze da monarchia, lo sfarzo e la decadenza, la fine di un impero
Lo è tradizionalmente nell’immaginario collettivo e lo è nel film di Pablo Larrain, che ricalca molto dell’immaginario sulla regina triste di un casato reale privo di nobiltà. Jackie è un film sulla decadenza, sui fasti di una volta “Non sono mai stata così felice come in quei giorni”, dice più volte (e lo ha detto realmente) la Jackie di Natalie Portman mentre vediamo come Larrain giochi tutto il film nei saloni del palazzo reale, sulle stanze della Casa Bianca, ne mette in scena la magnificenza per mettere in evidenza la fine di tutto e la necessità di un’ultima grande cerimonia, una che testimoni la grandezza degli unici reali americani.
Jacqueline Kennedy operò un profondo restyling degli interni della residenza presidenziale, uno per il quale fu attaccata e che giustificò al paese in una trasmissione televisiva in cui lei stessa introduceva per la prima volta il popolo americano dentro la Casa Bianca, mostrandone ogni sala e ogni scelta fatta all’insegna della tradizione. Anche questa trasmissione c’è in Jackie, ricostruita da Larrain (che già con No aveva conseguito una laurea breve in “ricostruzione di materiale televisivo d’epoca”). La Casa Bianca al massimo del suo splendore, i balli e le feste con musica in cui tutti ridono e poi le camminate di Jackie, sola e ancora sporca di sangue, nelle grandi stanze ormai vuote e silenziose. Gli esterni sono buio, umido e nebbia; gli interni sono luminosi e accoglienti ma permeati da un’aria di fine. Insomma mentre Natalie Portman lavora come fa il cinema americano in questi casi, con la passione per l’estroversione del dolore sommesso nei piccoli riti (svestirsi, truccarsi, pulirsi…), Larrain le costruisce intorno qualcosa di più grande in cui muoversi, qualcosa che dia ancora più senso a quel che lei fa.
Il regista cileno racconta sempre di come il potere influisca sugli uomini, solitamente piccoli, ordinari e lontani dalla grande politica, eppure preda di un’aria più grande di loroIn questo senso Natalie Portman è centrale. Non c’è inquadratura in cui non sia presente (tranne una e per necessità di sceneggiatura, quella della morte di Oswald), non imita troppo ma oltre a guidare il film nelle stanze, riceve come una spugna tutto il dolore. Non c’è clichè più odioso della donna in lacrime dopo una tragedia, non c’è ruffianeria più bieca della tristezza, il mutismo e i pianti per creare empatia con il pubblico. La grandezza di questo film sta nel trovare in tutto ciò una maniera in cui un’attrice possa lavorare sul lutto senza essere luttuosa, rappresentare una versione forte e dignitosa di un dolore immenso. Lei non sbaglia niente ma il film le crea il contesto per emergere dal magma di banalità che incombe su questi ruoli.
Tutto ciò è più di quanto siamo abituati a ricevere da qualsiasi film biografico o da qualsiasi ricostruzione storica. Certo è la storia non per come si è svolta ma assecondando i sentimenti che ha scatenato, ovvero la modalità classica secondo cui procede il cinema hollywoodiano in questi casi, tuttavia è anche in grado di lavorare ad un livello più alto, di pensare allo spirito del tempo. Arrivare a simili vette sarebbe un trionfo per chiunque, eppure è molto molto difficile dimenticare che dietro questo progetto c’è Pablo Larrain, difficile dimenticare cosa abbia fatto e in che maniera abbia cambiato tanto di quello che il cinema è oggi e può fare. Jackie è il suo primo film americano, il più convenzionale ma anche il primo ad alto budget e con una vera star, che sarà visto da tutto il mondo. Ed è un buon film. Non il suo migliore. Non ci si avvicina nemmeno.