Venezia 73 - Indivisibili, la recensione - Articolo del 6 settembre 2016 - 193157

Nonostante una partenza fulminante e un soggetto di impressionante creatività e suggestione, Indivisibili lentamente abbandona tutte le sue potenzialità #VeneziaBT

Critico e giornalista cinematografico


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Ha un inizio fragoroso Indivisibili, che pur nel suo silenzio e nella sua calma irrompe come un carroarmato nella testa dello spettatore, introducendo in tre piccoli quadretti da pochi minuti le sue protagoniste, la loro condizione peculiare e lasciando intuire una vita intera come non sappiamo nemmeno immaginarla.

Viola e Daisy sono gemelle siamesi, unite sul fianco all’altezza del bacino, Daisy a sinistra e Viola a destra. Le vediamo a letto, una dorme e l’altra si masturba (e la prima nel sonno sembra goderne). Le vediamo svegliate dalla madre il mattino dopo alzarsi dal letto insieme e sedute sul materasso abbracciarsi e baciarsi come saluto mattutino. Infine nel terzo quadretto le vediamo dal letto andare in bagno, chiaramente insieme, e fare pipì insieme e poi (immaginiamo) in doccia.

C’è Nicola Guaglianone (lo stesso di Lo Chiamavano Jeeg Robot e non pare un caso) dietro lo di script questo film presentato alle Giornate Degli Autori, che non esaurisce nell’incipit le sue trovate. Le due siamesi vivono in una zona marittima vicino Napoli, un quartiere un passo più in là di “desolato”, in cui sembrano esserci solo famiglie immigrate africane dalle prospettive limitate. Lì le gemelle lavorano anche se minorenni (ma ancora per poco) come cantanti. Matrimoni, comunioni e miracoli. Cantano canzoni scritte dal padre ma sono un’attrazione locale, in molti le considerano “sante”, credenza che il parroco avalla per catturare fedeli immigrati e creare una sua divisione della chiesa, dei suoi culti autonomi che ne rafforzino il potere. Le gemelle sono merce trasportata in camioncino, sfruttata e messa a fare denaro incassato dai loro “cari”.

Per come Edoardo De Angelis è onesto e duro con lo scenario, i corpi e i volti, sembra di essere in un film di Matteo Garrone. Non c’è intrusione poetica nel mondo raccontato, non c’è alleggerimento ma un credo realismo contaminato di paganesimo. Quello purtroppo arriverà dopo. Tutta la prima parte di Indivisibili è una storia che fantastica non è ma si comporta come tale, una di due freak bellissime e sensuali che tutti sfruttano come burattine ma che, casualmente scoprono che non è vero che non possono essere divise, la possibilità c’è e un medico lo farebbe anche gratis. Solo che divise non valgono come unite e la famiglia lo sa bene, ma sa anche che tra poco fanno 18 anni...

Ribellismo giovanile unito alla più assurda delle condizioni nel più infame dei posti, un mondo popolare concretissimo che osserva il suo “fenomeno” (come la Roma di Jeeg guardava il suo eroe Enzo Ceccotti non perdendolo mai di vista), lo commenta e lo vive. Sembra tutto perfetto fino a che il film non scade e decide di imbastire una specie di viaggio nel Paese dei Balocchi che tale non è, in un piccolo circo di altri freak tra donne cannone e nani in cui le due ingenue siamesi (una ingenua e sognatrice, l’altra ingenua e spaventata) sperano di trovare il denaro necessario al viaggio fino alla Svizzera dove farsi operare.

A quel punto più che la noia (perché un cambio di ritmo c’è) arriva soprattutto la delusione per quello che tutte quelle idee così incredibili sono diventate: un film italiano triste.

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